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RASSEGNA STAMPA - Il percorso del centrosinistra verso il programma per l’innovazione digitale, di Paolo Zocchi
Intervento al convegno “Politiche del territorio e territorio della politica”. Fiesole, 15 Gennaio 2005 , pubblicato su EUROPA del 29.01.'05

Sono quattro anni che come Margherita abbiamo cominciato ad interrogarci in maniera critica sul futuro della società dell’informazione. E sono quattro anni, più o meno, che è cominciata la crisi della new economy e ci siamo accorti, non senza qualche rammarico, che l’economia delle dot.com non era quell’eldorado del capitalismo che si pensava avrebbe potuto renderci tutti ricchi e felici.
Sono quattro anni che le positive esperienze dei governi Prodi, D’Alema e Amato nel campo dello sviluppo digitale della Pubblica Amministrazione italiana, hanno ceduto posto all’inconcludente e squattrinata propaganda delle tre I. E diciamolo forte, il centrosinistra, in questo settore, ha governato bene: senza se e senza ma. Nel 2000 l’Italia era all’avanguardia nei sistemi di e-government e di e-readiness (il sistema della società dell’informazione nel suo complesso) in Europa; oggi rivaleggia per l’ultimo posto con la Grecia ed è stata abbondantemente superata da paesi come la Slovenia o l’Estonia.
In questi quattro anni, grazie soprattutto alla forte spinta proveniente dalla società civile, la classe dirigente politica che fa riferimento all’area del centrosinistra è cresciuta ed ha sedimentato concetti importanti, in primis il fatto che le tecnologie dell’informazione non fanno parte di un universo meramente tecnocratico, ma coincidono con una delle chiavi fondamentali dello sviluppo e della competitività del sistema paese. La Margherita, in questo, ha giocato un ruolo fondamentale.
Tuttavia, è bene dirlo, che abbiamo solo fatto i primi timidi passi di un percorso lungo e difficile ed è proprio ora che ci aspetta la parte più dura, ovvero quella che ci impone di trasformare tutte queste energie positive, le idee, i contributi, in proposte politiche semplici ma circostanziate, corredate da piani di investimento, dotate di un piano di azione e di un ventaglio di obiettivi concreti. Insomma, si tratta di passare dai libri bianchi sull’innovazione al vero e proprio progetto di governo per la costruzione della società dell’informazione.

Servono nove miliardi di euro. Non lo dico io, ma il Ministro Stanca. Anzi, Stanca è ancora più pessimista: “l’Italia – ha affermato recentemente - esprime anche ritardi strutturali di lungo periodo, è cresciuta meno dei suoi diretti concorrenti sui mercati mondiali e continua ad attirare pochi investimenti stranieri”. Il conto è presto fatto: l’Italia investe l’1% in meno in tecnologie innovative rispetto agli altri paesi europei. Il che significa 15 miliardi di euro l’anno in meno. In parole povere, è proprio il Ministro che ci fa sapere che il suo dicastero può mettere sul tavolo quasi cento volte meno di quanto ci sarebbe bisogno. Da qui non si scappa. L’innovazione non costituisce più un’opportunità, ma una cruciale e urgente necessità. Siamo d’accordo con Pistorio quando sostiene che solo dando priorità a pochi temi cruciali su cui effettuare grandi investimenti si potrà uscire dall’impasse in cui siamo caduti. Ora, però, questi temi vanno declinati.
Ma c’è un altro fatto che è indubbiamente preoccupante: il fallimento oramai sempre più evidente della contrattualistica a progetto, sta determinando nel Paese una precarizzazione ancora più forte del lavoro. L’incremento del numero delle Partite Iva per necessità, specie nel Sud, segnala che nei prossimi anni ci troveremo con la metà della nostra forza lavoro costretta a saltare da un’occupazione all’altra, priva di qualsiasi tutela di continuità e, soprattutto, con una stringente necessità di essere up-to-grade, ovvero “appetibile” sotto il profilo della competenza. Di conseguenza, se questo per il liberismo neoconservatore può essere il profilo ideale di un Paese di imprenditori forzati, dal nostro punto di vista costituisce un bel problema di ordine sociale. Ma dobbiamo stare attenti a non cadere nella facile demagogia del “quando torneremo noi, cambieremo tutto”. A mio parere da qui non si torna più indietro. La precarizzazione del lavoro, indipendentemente dai giudizi, è un dato di fatto con cui ci troveremo a fare i conti: l’immissione di entropia nel sistema del lavoro non consente di ritornare al punto di partenza, ma solo di governarne le dinamiche. Socialmente, dunque, questo fenomeno può essere affrontato solo immettendo enormi quantitativi di innovazione nel sistema, dove con questo intendiamo formazione, stimolo alla creazione di impresa, infrastrutture e, lo diciamo marginalmente ma crediamo che sia un problema ancora insoluto, una maggiore capacità del sistema del credito a farsi volano di sviluppo.
Senza investimenti copiosi, dunque, senza quella “cura da cavallo” che molti auspicano anche per quello che concerne la risalita della china della competitività attraverso lo sviluppo della società dell’informazione, sarà difficile guadagnare posizioni. Partiamo dal 1,8 miliardi di euro che servono per completare l’infrastruttura di banda larga a renderla servizio universale; dai 3 miliardi di euro che le piccole e medie imprese necessiterebbero come volano per avviare delle strutture di ricerca innovativa; dai 2 miliardi di euro che servirebbero per fare in modo che il diffuso tessuto di microimprese del nostro territorio, possa utilizzare gli strumenti dell’informatica per guadagnare quel piccolo tassello di competitività che serve loro per sopravvivere; da una riforma complessiva del sistema dell’e-government che ha mostrato, durante questi anni, una fiacchezza dovuta al fatto che il ritorno, anche sociale, dall’investimento è risultato irrisorio. Ovviamente non si tratta meramente di denaro pubblico da trasferire ai privati come carburante della ripresa, non è tout court quel keynesismo digitale di cui parla anche avvedutamente Folena, ma un sistema che, una volta in moto, sappia anche alimentarsi in maniera autonoma.
Insomma le idee non mancano, ed è giunto il momento di metterle finalmente su carta e di segnare una reale differenza dalle politiche per l’innovazione della destra.

Qualche parola va poi spesa per quella sorta di nuova frontiera della innovazione rappresentata dall’open source. Gli standard aperti, che, si badi bene, non sono solo un fatto che riguarda il software e l’informatica, ma che investono il campo ben più ampio della riforma del diritto d’autore nell’era digitale, hanno generato un forte sistema di concorrenza che oggi sembra privilegiare il contenimento delle tariffe delle tecnologie informatiche. E’ proprio per questo che la nostra posizione su questi argomenti non può essere pregiudiziale; non si tratta di contrapporre un software aperto ad uno proprietario, ma di immettere nel sistema elementi di concorrenza; e per far ciò consideriamo nostri compagni di strada tutti coloro che oggi siano disposti ad aprire una discussione in tal senso.

Su tutti questi temi, assieme agli amici dei DS, dei Verdi, di Rifondazione Comunista e di tutti gli altri partiti dello schieramento di centrosinistra, stiamo costruendo un vero percorso condiviso. E l’entusiasmo che ci muove, ne siamo certi, si trasformerà in una azione di governo innovativa, qualcosa di cui il Paese ha grande necessità per ritornare ad essere competitivo.









 
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