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DISEGUAGLIANZE SOCIALI E GLOBALIZZAZIONE
di Giuseppe BIANCHI

Ci sarà un momento a partire dal quale i salari potranno riprendere a salire, l’occupazione crescere, invertendo la tendenza, ormai ventennale, che vede il lavoro quale fattore sfavorito e svalutato nei processi di redistribuzione del reddito? Che i ricchi tendono a divenire sempre più ricchi mentre gli altri, che sono i più, regrediscono nelle disponibilità economiche, è ormai certificato da innumerevoli statistiche nazionali ed internazionali.

Altrettando pacifica è la relazione fra l’aumento della disuguaglianza sociale e la globalizzazione dei mercati. Tale relazione diviene più esplicita allorchè il fenomeno della globalizzazione viene scomposto nei suoi elementi costitutivi: deregolamentazione finanziaria, destrutturazione dei mercati del lavoro, delocalizzazione produttiva, riduzione della progressività delle imposte (nessuno ricorda che negli anni ’70-’80 il tasso marginale massimo sul reddito si aggirava intorno al 70-80%) e così via.

La globalizzazione è stata il fenomeno nuovo che ha messo in crisi l’apparato istituzionale faticosamente costruito nel tempo per domare “gli spiriti animali” del precedente ciclo di industrializzazione, basato inizialmente sullo sfruttamento rapace del lavoro. La creazione dello Stato sociale ed il ruolo dei sindacati e della contrattazione collettiva nel regolare la distribuzione del reddito sono state le istituzioni per pervenire ad una disuguaglianza socialmente accettabile. Una tale costruzione sociale si è realizzata nella sostanziale coincidenza fra confini dello Stato e confini dell’economia che ha favorito un percorso “protetto” di progressiva apertura ai mercati esteri nell’obiettivo di contenerne i costi sociali. Va anche ricordato che ai benefici ottenuti in termini di maggiore eguaglianza sociale nei paesi in via di industrializzazione ha corrisposto un allargamento delle disuguaglianze sociali a livello mondiale svantaggiando i paesi e le popolazioni meno dotate di accumulazione di fattori produttivi (capitale in primis).

2) La globalizzazione ha imposto nuove regole del gioco: se da un lato con la deregolazione finanziaria ha messo in crisi gli equilibri economici e sociali dei paesi più ricchi, dall’altro, favorendo l’intensificazione degli scambi commerciali e la condivisione di un comune progresso tecnico, ha inserito nuove popolazioni nel ciclo dello sviluppo, i cosiddetti paesi emergenti realizzando un maggiore equilibrio nel confronto dei redditi medi pro-capite. Senonchè anche in questi paesi, la nuova ricchezza accumulata al vertice delle società, ha mancato clamorosamente di filtrare verso il basso, riproponendo la regola per cui i ricchi sono divenuti sempre più ricchi, mentre il grosso della popolazione è uscito dalla trappola della povertà estrema ma non ha di certo beneficiato in misura appropriata delle maggiori risorse né in termini di diritti economici né di diritti politici (vedi Cina, Russia). Se la prospettiva è quella di una globalizzazione della diseguaglianza dobbiamo rassegnarci alla fine di qualsiasi speranza di giustizia sociale, allontanando il tempo nel quale il lavoro potrà rivalutarsi?

3) Zygmunt Bauman in un recente opuscolo si pone il quesito (Idòla, La terza, 2013): la ricchezza di pochi avvantaggia tutti?

Una affermata ortodossia economica risponde sì, in quanto la disuguaglianza, fornendo premi più alti e tasse più basse, stimola l’imprenditorialità dei più dotati, favorendo la crescita delle economie. Ogni tentativo di intromettersi nella naturale disuguaglianza degli uomini sarebbe dannoso perché farebbe perdere vigore alla società. Esisterebbe quindi una incompatibilità tra uguaglianza ed efficienza economica.

Tale tesi è stata contraddetta nel nostro vecchio mondo pre globalizzato ove la coesione sociale, assecondata da una eguaglianza orientata a correggere le disparità di partenza, è risultata essere un vantaggio competitivo che ha premiato i paesi più avanzati su tale piano (si pensi ai paesi come Svezia, Danimarca, ecc.). Tale tesi, però, non può non essere sostenuta neppure nel nuovo mondo globalizzato tanto è evidente come la concentrazione della ricchezza nella mano dei pochi riduca la spinta propulsiva di una società, privata delle potenzialità degli esclusi.

Il problema critico è come rimettere sotto controllo “gli spiriti animali” del nuovo capitalismo senza frontiere, come creare le istituzioni pubbliche e sociali in grado di riequilibrare i rapporti tra lavoro e capitale.

E’ vero che sono state create istituzioni internazionali, quali l’ONU, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, il WTO, con il compito di sostenere uno sviluppo solidale e la pace.

Ma né abbiamo accertato la scarsa efficacia anche perché occorre fare i conti con il dato imprevisto di grandi paesi emergenti, come Russia, Cina, in cui l’accettazione del libero mercato convive con forme di autoritarismo politico che mettono il bavaglio alle istituzioni, quali partiti e sindacati, gli incubatori delle dinamiche sociali egualitarie.

La stessa costruzione europea, messa alla prova dalla crisi, ha perso la sua originaria vocazione solidale, irrigidendo le sue politiche nel difficile rapporto fra paesi debitori e creditori con il risultato di dilatare i dualismi nei tassi di crescita e nelle protezioni sociali all’interno di una stessa area monetaria.

4) Ritorniamo al quesito posto: la svalutazione del lavoro è strutturalmente correlata alla globalizzazione che mette in forse le conquiste sociali nei paesi più sviluppati e ne impedisce l’introduzione nei paesi emergenti? C’è un dato della storia su cui riflettere. Il percorso dell’industrializzazione nei paesi occidentali ha prima riconosciuto i diritti economici individuali alla base del funzionamento del libero mercato, i diritti di proprietà, l’eguaglianza davanti alla legge e solo successivamente i diritti politici, prima in forma elitaria (basata sul censo) poi su base universale, per concludere il processo con l’affermazione dei diritti sociali quale risultato di una autoregolazione riconosciuta alle rappresentanze collettive degli interessi.

Il quesito che rimane sospeso è se anche il nuovo ciclo economico, attivato dalla globalizzazione, possa innescare una analoga dinamica, rinsaldando il nuovo benessere economico con la domanda di nuove libertà, di maggiore uguaglianza sociale, e con la creazione di appropriate istituzioni.
democraticamente rappresentative a livello sovranazionale. E’ legittimo oggi un certo pessimismo motivato dalle divergenze culturali, religiose che complicano il percorso della globalizzazione aprendolo a sbocchi imprevedibili. Così come non emergono contrappesi di natura politica e sociale in grado di contenere l’attuale egemonia dell’economia finanziaria. Secoli fa Tucidite scriveva che “nessuno è mai tanto forte da essere sicuro di essere sempre il più forte”. Ciò significa che il futuro non è mai scritto e sta alla volontà degli uomini costruirlo.

E non è forse nelle corde dell’umanità una aspirazione universale alla libertà e alla giustizia sociale? Il problema è che nel lungo tempo saremo tutti morti, ammoniva Keynes, per cui non possiamo sottrarci ad un impegno di breve periodo che affronti oggi il tema della disuguaglianza, correggendo le imperfezioni che non ci permettono di progredire nè sul fronte dell’efficienza economica né su quello dell’uguaglianza.

Una presa di consapevolezza necessaria per il nostro paese la cui resistenza alla comprensione e agli adattamenti richiesti dall’integrazione dei mercati ha causato nello stesso tempo declino economico e disuguaglianze crescenti nei tassi remunerativi del lavoro e del capitale e nello stesso mondo del lavoro fra “protetti” e “non protetti”.

Un’Italia competitiva che risolve le sue croniche arretratezze può con maggiore autorità concorrere ad una Europa forte e solidale il cui modello di economia sociale di mercato è in grado di offrire un prototipo di globalizzazione, sia pure di carattere regionale, capace di tenere insieme, non senza difficoltà, crescita economica, tutela sociale e libertà politiche. Una tappa, si spera, per una futura globalizzazione dell’eguaglianza.

 
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