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QUESTA ESTATE STRAVAGANTE
di Giuseppe BIANCHI

Il bello delle vacanze è che si visitano nuovi luoghi, si conoscono altre persone al di fuori del tradizionale circuito del lavoro. A maggior ragione quando le bizzarrie di una estate stravagante induce a lasciare le pigrizie dell’ombrellone per trovare svaghi alternativi nelle piccole città del retroterra, testimoni muti di un lontano passato. Una vacanza, insomma più comunitaria, più ricca di opportunità di incontri in cui la gente parla, si confronta, espone le proprie preoccupazioni.

Preoccupazioni per il lavoro, per il futuro dei figli, per la tenuta del livello di benessere, perché generale è la consapevolezza della crisi in atto le cui stimmate sono impresse nella maggioranza delle famiglie italiane.

Il tema di discussione ricorrente è cosa fare, come uscirne. Può apparire strano osservare come nonostante la durata della crisi (ormai da sei anni) permanga un sentimento di smarrimento che non va oltre ad una sterile antipolitica. Si parla di ciò che si vede o si sente riproducendo i vaniloqui dei tanti ed inutili dibattiti televisivi. Insiste una incapacità di capire la realtà in cui si vive, per la mancanza di dati, di concetti, di idee che la inquadrino e la significano.

Si sa che il paese ha problemi di spesa pubblica, di mancata crescita, di ritardi competitivi ma l’attribuzione delle responsabilità è sempre riportata alle istituzioni nazionali ed europee. Nessun accenno ad una autocritica che metta in evidenza la complicità dell’intera società italiana, quella degli imprenditori che non investono, quella dei lavoratori irrigiditi da una normativa invasiva, quella dei cittadini che evadono le tasse, per non parlare poi delle molteplici aree protette dalla concorrenza ove allignano rendite di posizione e privilegi corporativi. Sembra prevalere un concetto di uguaglianza inteso come diritto di accesso di ciascun cittadino ad un proprio privilegio, secondo la classe sociale di appartenenza.

Ciò vale, ovviamente, per chi trova tutela collettiva nel sistema. Per gli “outsider”, cioè gli esclusi, rimane l’arte di arrangiarsi.

Ciò che ancora non viene colto nell’opinione pubblica italiana è che la politica è la vita della “polis”, della comunità, e che la lotta per uscire dalla crisi richiede l’impegno congiunto dello Stato e della società civile, nella composizione delle sue strutture economiche e sociali e delle sue rappresentanze collettive perché il cambiamento diventi una regola condivisa.

Nella preoccupazione della gente è fortemente presente quella del lavoro perché è di facile comprensione che la mancata crescita e le nuove tecnologie stanno rivoluzionando il mercato dell’occupazione sia dal lato quantitativo che qualitativo. La gente guarda al Governo, al “jobs act” e alle promesse incluse, con una riserva mentale, perché sa che sul tema delle regole del lavoro c’è una sedimentazione ideologica di conflitti che renderà impervia qualsiasi soluzione condivisa.

C’è un approccio che la gente capirebbe? Lo Stato si concentri sulle sue funzioni istituzionali: la formazione ai vari livelli per superare l’attuale divario tra

domanda ed offerta di capacità professionali, le strutture pubbliche dell’impiego quale perno operativo di una politica attiva del lavoro, i sostegni finanziari e di assistenza tecnica per favorire la riallocazione dei lavoratori dalle aziende decotte a quelle espansive. Per quanto riguarda invece le regole del lavoro, una volta definite per legge alcune garanzie generali, sia delegato non al Parlamento (che ha ben altre cose da fare), ma alle parti sociali la responsabilità di trovare le soluzioni più appropriate per coniugare competitività e tutela del lavoro. Si cita spesso il modello tedesco la cui disoccupazione giovanile è all’8% contro il 42% dell’Italia, risultato attribuito alle riforme Schöder ma anche alle riforme intervenute nel sistema delle relazioni industriali ad opera delle parti sociali con la valorizzazione della contrattazione decentrata che ha consentito un recupero di competitività produttiva tutelando l’occupazione con la redistribuzione del lavoro (contratti di solidarietà) e preservando le istituzioni sociali che ora consentono una partecipazione dei lavoratori ai benefici del risanamento avvenuto.

Un altro motivo dell’antipolitica nell’opinione pubblica è il divario tra le tasse pagate e le prestazioni sociali godute. E’ un problema non solo di mancata efficienza delle strutture pubbliche ma di distorsioni strutturali nel nostro stato sociale incapace di tutelare le categorie sociali più deboli, le vere vittime dei processi di ristrutturazione in atto. Si dice che la Merkel tenga in tasca un biglietto con tre statistiche che mostra ai suoi interlocutori: l’Europa rappresenta il 7% della popolazione mondiale, il 25% del prodotto lordo, il 50% delle spese per il Welfare dello Stato. A tale proposito vanno anche citate le documentazioni prodotte dall’OCSE in cui si citano le esperienze dei paesi Nordici (Svezia, Danimarca) che hanno ridotto le tasse, contenuto la spesa della politica sociale, rendendola più coerente con le esigenze di crescita, e riorientandola a tutela di quanti sono coinvolti nei processi di cambiamento.

Non si tratta per l’Italia di importare modelli altrui ma di trarne il convincimento che le riforme anche nel campo sociale possono essere fatte nell’interesse di tutti.

Il mito che deve cadere è quello dello Stato Provvidenza che tutela tutto e tutti. La contraddizione in cui ci troviamo è che allo Stato si chiede sempre di più e quando lo Stato reagisce con l’aumento delle tasse la reazione è quella di alzare ulteriormente l’asticella delle domande. Un circolo vizioso che svena il Paese e sottrae risorse agli investimenti produttivi.

Il Governo Renzi ha il merito di avere introdotto nella politica nuovi stimoli, nuova capacità di progetto, più passione politica. Il popolo sta a guardare a questo rivendicato primato della politica con diffidenza per il rischio di un sovraccarico di aspettative, considerando i limiti posti all’iniziativa e alla sovranità dello Stato.

La politica deve tener contro del nostro policentrismo decisionale, delle micro questioni territoriali e settoriali nelle quali si esprimono le migliori vitalità del sistema. Compito della politica è quello di assecondare una rigenerazione di sistema ma questo obiettivo avrà successo tanto più saranno gli attori che parteciperanno a questa sfida. Le parti sociali riprenderanno slancio e capacità di progetto. Meglio una società di combattenti per la sopravvivenza che di abulici osservatori di un declino che, oltre ad un certo limite, rischia di essere irreversibile.

 
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