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DIVIETO DI ASSUMERE
di Giuseppe BIANCHI (NOTA ISRIL ON LINE N° 29 - 2014)

La tesi svolta da Giampiero Falasca è sintetizzata nel titolo del volume, edito da Edizioni Lavoro (2014) “Divieto di assumere”. Titolo categorico che srotola la sua motivazione richiamando nei vari paragrafi le patologie del nostro ordinamento del lavoro che portano appunto al “divieto di assumere”.

In materia di flessibilità del lavoro, troppe le regole e troppo complesse che, soprattutto nelle imprese minori, scoraggiano le assunzioni anche quando economicamente giustificabili.

Trionfo del formalismo giuridico in materia di apprendistato, di stage, di mobilità interna ed esterna che, nell’incertezza sugli esiti di eventuali conflitti, inducono a rinviare le decisioni. Falasca segnala, ad esempio, che gli utilizzatori dell’apprendistato sono diminuiti, dopo ogni riforma, nonostante che questo istituto venga sempre riproposto come il contratto prevalente per l’accesso dei giovani al lavoro. L’eccessivo numero dei lavoratori autonomi rispetto al totale dell’occupazione (23% contro il 13% della Germania) è significativo degli impedimenti che ostacolano il ricorso al lavoro dipendente.

La fabbrica delle regole è poi sempre aperta perché ogni Ministro del lavoro (circa uno per anno) vuole lasciare il suo segno indelebile, avviando una propria riforma del lavoro prima ancora che la precedente consenta di verificarne i risultati. Ogni riforma poi alimenta la catena delle circolari ministeriali, nel loro non facile lessico burocratico, la cui corretta applicazione non risparmia le aziende da una possibile interpretazione “creativa” da parte del giudice di turno.

A proposito poi della magistratura del lavoro non solo ci sono i tempi lunghi del processo del lavoro ma anche le decisioni contraddittorie nelle diverse fasi del rito processuale (dal primo grado alla Cassazione), che introducono ulteriori fattori di imprevedibilità.

La prima conclusione è quella di un ordinamento del lavoro non competitivo che rallenta le assunzioni anche quando le imprese vogliono fare le cose in regola, per non parlare poi degli incentivi che si creano per sfuggire alle norme per le imprese più spregiudicate. Non a caso il lavoro irregolare è un fenomeno di massa in Italia, sconosciuto in altri paesi, anche per la carenza dei controlli istituzionali e per l’attesa di qualche condono riparatore.

Come uscire da questo labirinto giuridico che, per effetto di un processo di eterogenesi dei fini, produce effetti contrari a quelli perseguiti? La radicalità dell’analisi dell’autore, (un giurista con esperienze lavorative nazionali ed internazionali) perde smalto quando dalla diagnosi si passa alla terapia.

Egli, infatti, propone nelle sue conclusioni “un piano straordinario per la semplificazione finalizzato a cancellare le procedure e le regole inutili ed inefficienti”. Ma questa semplificazione non è stata l’obiettivo messo a capo di tutte le riforme che si sono succedute in questi anni? La domanda che sorge e che l’autore non si pone, è se il difetto non sia nel manico, cioè nel ruolo straripante dello Stato e nell’abuso dello strumento della legge per regolare una materia come quella del lavoro, di per sé fluida e multiforme, difficilmente gestibile con procedure rigide ed universali. Una materia esemplificativa di quel principio di

“sussidarietà” per cui la legge definisce alcuni diritti inalienabili e le parti sociali si impegnano a trovare le soluzioni più appropriate con lo strumento flessibile della contrattazione collettiva.

Pietro Merli Brandini ricorda spesso l’esperienza del nostro dopoguerra nel periodo 1945-1970, quando la riconversione del nostro apparato produttivo, da finalità belliche a quelle civili, fu gestita direttamente dalle parti sociali con lo strumento del contratto interconfederale.

Con tale contratto non solo si regolarono i salari, nella loro struttura ed evoluzione ma si gestirono anche le esigenze di mobilità del lavoro attraverso accordi in materia di licenziamenti individuali e collettivi, garantendo ai lavoratori in esubero un minimo di assistenza tramite la cassa integrazione e sostegni alla rioccupazione. La gestione applicativa fu affidata alle ricostituite Commissioni interne che, conoscendo le singole realtà aziendali, si fecero carico di definire le priorità sociali sulla cui base applicare le normative nazionali, prevedendo, in presenza di conflitti, procedure interne per la risoluzione consensuale delle controversie individuali e collettive. Certo non mancarono le tensioni, questo tipo di gestione non soddisfò tutti, ma non venne mai meno il consenso sociale ad una riconversione produttiva che pose le basi per il successivo sviluppo del nostro sistema produttivo ed occupazionale. Ricordare questa esperienza non significa riproporla nelle mutate circostanze di oggi, ma porre il problema che, se si vuole eliminare gli attuali ostacoli alle “assunzioni”, è necessario trovare un nuovo equilibrio fra legge e contratto collettivo.

La legge deve definire i “diritti base” di qualsiasi lavoro e la contrattazione collettiva, soprattutto nella sua dimensione aziendale e territoriale, deve gestire le flessibilità del lavoro, aprendo alla partecipazione dei lavoratori che hanno ben presente come la tutela dei loro interessi presupponga imprese sane e competitive.

Ciò che viene chiesto al Governo è l’efficiente uso degli strumenti di una politica attiva del lavoro per facilitare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro. Falasca dedica attenzione alle innovazioni normative prodotte dalle diverse riforme del lavoro ai fini di rivitalizzare i centri dell’impiego, la formazione professionale, i sostegni alla flessibilità esterna. I risultati ad oggi sono scarsi per le resistenze burocratiche, per mancanza di soldi, per la rigidità delle normative in atto.

Un’indicazione è che non basta enunciare obiettivi se non si cambiano le organizzazioni che devono applicarli. L’innovazione giuridica per essere efficace deve essere accompagnata dalla eliminazione di ogni residuo di monopolio pubblico, deve creare una competizione tra strutture pubbliche e private, deve rimediare all’attuale frammentazione regionale delle politiche del lavoro, deve dare spazio a nuovi istituti come gli Enti Bilaterali che mettono in campo i più diretti interessati: imprese e lavoratori.

Il Governo Renzi, con la delega al Governo, si propone di intervenire sull’organizzazione del mercato del lavoro e sulle sue regole. Obiettivo ambizioso che risuscita vecchi fantasmi ideologici (art. 18). Andrebbe ricordato il vecchio monito di Montesquieu “le leggi inutili indeboliscono quelle necessarie”. Quelle inutili sono quelle che pretendono di imbrigliare il fisiologico dinamismo del mercato del lavoro con un eccesso di regolazione centralistica laddove un regolato policentrismo contrattuale sarebbe più utile ai fini della competitività delle imprese e degli interessi dei lavoratori.

 
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