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IL “JOBS ACT” NELL’INGORGO POLITICO
di Giuseppe Bianchi ( NOTA ISRIL ON LINE N° 30 - 2014 )

Il “Jobs act” nel momento in cui è entrato nell’ingorgo politico ha perso i suoi referenti: non sono più i giovani disoccupati ma gli elettori. Da qui la tortuosità del suo percorso e le incertezze sul risultato.

Eppure il “Jobs act” con il suo obiettivo di rimediare ai danni di un mercato del lavoro “senza governo” si muove nella direzione di una razionalizzazione europea per ottenere quei risultati occupazionali che da noi mancano. Certo le regole del mercato del lavoro non creano occupazione ma possono concorrere a creare le condizioni perché ciò avvenga.

La stampa quotidiana non manca di tenerci informati sulla proposta governativa e su alcuni nodi critici, art. 18, riforma degli ammortizzatori sociali, tipologia dei contratti, descrivendo i giochi politici che si attivano intorno a tali questioni. C’è però una dissonanza in questo concerto di opinioni. Chi crea l’occupazione sono sicuramente le imprese con i loro investimenti e i lavoratori con la loro collaborazione allo sviluppo competitivo delle stesse.

Come mai le rappresentanze di tali interessi, tanto loquaci in altre occasioni, tacciono nonostante trattasi di materie che attengono alle loro responsabilità istituzionali? Eppure non si può certo dire che l’attuale “status quo” meriti qualche difesa.

Le patologie del nostro mercato del lavoro sono note nelle sue cause e nei suoi effetti. Troppe leggi, troppo complesse, troppo variabili, strutture pubbliche dell’impiego sottodimensionate ed inefficienti, buco nero della formazione professionale e gli effetti sono nei dati della disoccupazione giovanile, del lavoro precario, del lavoro sommerso.

Ai sindacati e alle rappresentanze delle imprese viene ora rimproverato di non aver reagito con sufficiente determinazione al declino produttivo ed occupazionale con iniziative che dessero risposta ai nuovi problemi posti dalla maggiore competitività dei mercati.

Eppure c’è stata una lunga stagione nella quale le parti sociali hanno svolto con successo un ruolo determinante nella regolazione del lavoro tramite lo strumento flessibile della contrattazione collettiva nella fase della ricostruzione post-bellica con esiti favorevoli ai fini dello sviluppo produttivo e del benessere dei lavoratori. Ci sono stati iniziali costi sociali, come avvenuto in Germania con le riforme del Governo Schröder, ma poi i risultati sono stati vantaggiosi per tutti.

L’ingorgo politico di cui è ostaggio il “Jobs act” potrebbe essere in parte allentato da un intervento delle parti sociali che rivendichi alla contrattazione collettiva gli spazi oggi occupati da una eccessiva invasività delle leggi. Materie come le flessibilità del lavoro, sia in entrata che in uscita, potrebbero essere regolate dalla contrattazione collettiva, all’interno di alcune garanzie generali definite dalla legge a protezione dei licenziamenti discriminatori, specificandone le fattispecie.

Sindacati ed imprese avrebbero poi un reciproco interesse nel concordare alcune linee programmatiche: incentivare la propensione produttivistica dei lavoratori all’interno di uno scambio che allarghi la loro partecipazione alla condivisione delle scelte ed ai benefici ottenuti; prevedere, in caso di esuberi dei lavoratori, servizi di sostegno alla loro rioccupazione, ed indennità integrative; recuperare con procedure extragiudiziarie (conciliazione ed arbitrato) la gestione dei conflitti sociali, a maggiore tutela dei soggetti più deboli che hanno meno possibilità di farsi valere nei tribunali del lavoro, per i tempi di attesa, per i costi, per l’incertezza degli esiti.

C’è un comprensibile riserbo sulla possibilità di recuperare in tempi brevi l’operatività delle strutture pubbliche dell’impiego agli impegni di una politica attiva del lavoro, per carenza di fondi, per difetto di professionalità, per i noti vincoli burocratici (si vedano gli scarsi risultati del recente programma europeo per i giovani disoccupati). Anche in questo campo le parti sociali si sono date strumenti operativi come gli Enti Bilaterali settoriali. La loro azione potrebbe essere estesa nel formulare strategie capaci di anticipare e stimolare la domanda di nuovi lavori incentivando la formazione delle conoscenze professionali richieste, nel facilitare l’incontro fra domanda ed offerta di lavoro, nel prevedere, a livello europeo, la riallocazione temporanea dei giovani disoccupati in imprese innovative straniere per fare esperienza.

Per non parlare poi, in una prospettiva più ampia, dei molteplici fondi integrativi (in primis i fondi pensione) la cui capacità di accumulazione potrebbe essere rafforzata da una partecipazione agli utili di impresa ed orientata, con opportune garanzie dello Stato, ad investimenti produttivi a correzione dell’attuale impiego in titoli di Stato, per lo più stranieri. Altre iniziative concordate con le multinazionali italiane ed estere potrebbero portare a piani per l’occupazione, sul modello Nestlé, recuperando tali attori ad un dialogo istituzionale come avviene in altri paesi.

In Francia nel 2013 è stato concluso tra le parti sociali un accordo interprofessionale che associa la competitività delle imprese, con la sicurezza dell’impiego ed il percorso professionale dei lavoratori.

Vengono rafforzate le tutele per i lavoratori coinvolti in situazioni di crisi, vengono attivate le leve della formazione (creazione di un conto personale di formazione), vengono estese le informazioni destinate ai lavoratori, vengono regolate le flessibilità del lavoro, vengono predisposti strumenti per la gestione previsionale dell’occupazione e delle competenze.

Sappiamo tutti che la Francia in questo momento non è il migliore dei mondi possibili, sia dal punto di vista economico che sociale ma non si può non marcare una differenza con la passività del nostro sistema di Relazioni Industriali chiuso nei confronti di ogni apertura innovativa. Anche in Francia, la CGT, la corrispondente CGIL italiana, si è auto esclusa da ogni trattativa, ma ciò non ha impedito che le altre molteplici espressioni riformistiche degli interessi collettivi assumessero le loro responsabilità. Una risposta a quanti ne profetizzano l’inarrestabile declino delle parti sociali iniziato da quando le regole del mercato del lavoro sono uscite dalla disponibilità delle relazioni contrattuali.

Le rigidità che si sono create non hanno giovato né alle imprese, né ai lavoratori, né alla funzionalità del mercato del lavoro.

 
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