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'' Lavoro femminile oggi ''
Newsletter Associazione Nuovi Lavori n. 34

Parità che valga una vittoria
di Raffaele Morese

Il 25 novembre è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. E’ stata indetta dall’ONU ed è verosimile che vi saranno molte manifestazioni nel mondo. Non mancheranno belle ed importanti parole, spese con genuino senso di uguaglianza e cariche di buona volontà. D’altra parte, la materia non manca; la cronaca quotidiana è buona fonte di fatti, azioni, denunce che rimarcano la lunga strada da percorrere ancora per una reale parità e rispetto tra uomo e donna, tanto nei Paesi ricchi che in quelli disagiati e poveri, tanto nei Paesi di giovane democrazia, quanto negli Stati a più collaudata democrazia.

L’iniziativa dell’ONU punta alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle situazioni più estreme: incidendo positivamente su di esse, si spera che gli effetti imitativi si propaghino, soprattutto se l’impegno degli Stati e della società civile diventeranno sempre più reali e non semplicemente evocativi.

Ovviamente, sarebbe scorretto non registrare i progressi fatti in questi anni un po’ ovunque nel mondo. Ma proprio scorrendo mentalmente i successi acquisiti dalla cultura della parità e della non violenza, si evidenzia quanto ancora lungo è il percorso da compiere per soddisfare le esigenze di dignità che il buon senso oltre che la cultura democratica mettono in evidenza.

Anche in Italia la questione resta aperta. Non solo perché la violenza omicida verso la donna è ancora alta e preoccupante, l’aggressività di ogni tipo non è affatto scalfita dalla legge sullo stalking, l’attentato alla dignità e alla libertà è alimentato da stereotipi dei media e da involgarimenti dei linguaggi. Il segno delle contraddizioni che attraversano la nostra società è dato dall’ammissione delle donne alla Nunziatella e dai fischi degli ex allievi che hanno contestato l’innovazione in occasione della cerimonia del giuramento.

La questione resta aperta anche e forse soprattutto perché il diritto al lavoro ed alla valorizzazione delle professionalità delle donne resta un obiettivo più scritto nella legge e nei contratti che effettivamente concretizzato. E’ impressionante il tasso di occupazione femminile italiano: in Europa precediamo soltanto Portogallo e Malta. Ma non si tratta soltanto di un problema quantitativo. C’è un aspetto qualitativo di non piccolo conto. Quale lavoro per le donne?

Non ci sono nella nostra legislazione ostacoli formali per scelte a tutto campo. In settori tradizionalmente “maschi”, come il trasporto pubblico locale, si vedono sempre più spesso donne alla guida degli autobus; in ruoli usualmente maschili, come il management aziendale, cresce la presenza femminile.

Ma gli ostacoli restano gravi e pesanti. A partire dall’avviamento al lavoro. La formazione e l’orientamento al lavoro non svolgono la propria parte come dovrebbero. In parte, perché cronicamente inadeguati ma in parte perché il messaggio culturale prevalente è che si ha successo e si può guadagnare di più facendo mestieri dove conta l’apparire piuttosto che l’essere.

In questo clima, la formazione si svaluta e l’orientamento si devia. Così, gli istituti tecnici si svuotano e le lauree “deboli” si gonfiano, i lavori considerati faticosi si scansano e le professioni che si presumono poco impegnative si affollano.

Tutto questo vale per i giovani, in genere ma per le donne in particolare. La devianza per le soluzioni “leggere” le può coinvolgere con maggiore intensità. E di conseguenza, più profonda può essere la delusione, più ardua l’immissione nel mercato del lavoro e più insidiata la valorizzazione del loro saper fare.

Un ripensamento sulla qualità della formazione da offrire e sulle parole d’ordine orientative diventa necessario per aprire prospettive diverse e praticabili dalle famiglie, dai giovani, dalle istituzioni pubbliche. Fintanto che lo studio non è pubblicizzato con maggiore vigore rispetto al “velinismo”, fintanto che per fare ricerca è inevitabile andare all’estero, fintanto che le eccellenze intellettuali non sono sublimizzate meglio delle eccellenze fisiche, la cultura prevalente di questo Paese complicherà il progresso di una sostanziale parità tra uomo e donna.

Un secondo ambito di riflessione non attiene all’accesso al lavoro, ma ha sempre a che fare con la cultura del Paese. Se questa fa prevalere la logica di potere in tutti i campi – da quello accademico, a quello parlamentare, da quello aziendale a quello sociale e finanche a quello ecclesiale – è fuori di dubbio che la donna rispetto all’uomo è meno capace o attrezzata per imporsi. C’è una lunga tradizione di gerarchizzazione dei ruoli che – indipendentemente dai regimi che si sono susseguiti nella storia – fossilizza dominio e dipendenza.

Dove si sta sostituendo la logica di potere con quella della validazione del merito la dialettica si amplia, il conflitto di genere si attenua, la mobilità verticale delle donne si rianima. Ancora una volta è nel lavoro che va provocata la scintilla dello spostamento del baricentro del successo: dal potere alla strategia. Perché è lì – vuoi per effetto della globalizzazione, vuoi per la forza dell’innovazione tecnologica - che va ridefinita in chiave non congiunturale ma di medio e lungo periodo la prospettiva dell’affermazione di un progetto.

Tutta la discussione sui bonus agli amministratori delle imprese avrebbe un orientamento meno condizionato dal fiato corto se, a validare l’operato di quei dirigenti, le fonti della legittimazione fossero “plurali” (in alcune aziende anche i dipendenti esprimono un giudizio sui loro capi) e ci fosse una presenza più diffusa di donne nei boards.

Questa logica di traslazione dal potere alla strategia, dalla visione corta a quella lunga può scendere lungo i rami dell’organizzazione del lavoro privato e pubblico fino ai piani bassi e così aprire varchi significativi ad una migliore visibilità e carriera delle donne. Tanto il management quanto i sindacati avrebbero molto lavoro – per esempio, attraverso il potenziamento della contrattazione decentrata – per ridisegnare un futuro all’uguaglianza uomo-donna e con esso consolidare un diverso ordine della vita lavorativa.

La visione di una dignità rinnovata della donna, a partire dal suo rapporto con il lavoro, non può evitare la questione della famiglia. La valorizzazione della funzione produttiva non può essere fatta a scapito di quella riproduttiva. Facile dirlo, difficile praticarlo. E così, di rinuncia in rinuncia a prendere il toro per le corna, si sono progressivamente frustrate le ambizioni materne, si è chiesto alla donna di scegliere di rinunciare a procreare a tempo debito e come avrebbe voluto.

L’equilibrio accettabile tra lavoro e maternità, tra tempo del fare e tempo dell’accudimento si deve trovare, non c’è alternativa. Lo sanno i maschi che si devono accollare, almeno in parte, compiti storicamente delegati alle casalinghe. Ma lo sanno soprattutto le donne che devono optare per una vita lavorativa diversa da quella maschile. Devono puntare ad una più consistente disponibilità di “sabbatici” – regolarmente retribuiti – da scontare con un’entrata nell’età di pensione più spostata nel tempo. Devono ottenere che questi periodi di non lavoro siano trascorsi mantenendo un permanente contatto con il proprio luogo di lavoro, per non scoprirsi obsolete al rientro. Devono chiedere al datore di lavoro e allo Stato di farsi insieme carico dell’onere dei “sabbatici”, in modo tale che un uso sempre più diffuso di essi non sia ostacolato da difficoltà finanziarie.

Si tratta di impostare uno scambio onorevole tra le esigenze personali, quelle datoriali e quelle istituzionali. Uno scambio, però, che può tornare utile alle aspettative di carriera e di professionalità della donna, può consentire all’impresa di disporre di personale soddisfatto sul piano affettivo, può offrire al Paese un’inversione di tendenza.

Le frontiere dell’uguaglianza non sono fisse; anch’esse si spostano e si modellano con i cambiamenti culturali di un popolo. Non è incontrollabile, se ciò avviene alla luce del sole; è pieno d’incognite, se assume un andamento carsico.

La crisi attuale può alimentare i tre cambiamenti delineati in precedenza, ma è soprattutto l’intelligenza strategica delle classi dirigenti a doverli guidare. Se ciò sia nelle cose, lo capiremo entro poco tempo; quello del superamento della crisi.




Le relazioni di genere tra famiglia e lavoro
di Mirella Giannini (*)

Sulle questioni di genere il dibattito pubblico si è soffermato, anche recentemente, sull’avanzare delle donne nei campi dell’istruzione e del lavoro. Le statistiche generali lo dimostrano: in Italia, i livelli d’istruzione e d’impiego delle donne presentano una dinamica positiva, specie negli ultimi decenni. Nonostante ciò, non sono stati ancora raggiunti gli obiettivi di Lisbona per il 2010, e nel Rapporto 2009 sul “Gender Gap” del World Economic Forum si legge che l’Italia è al 72esimo posto su 134 paesi ( nel 2007 all’84esimo e nel 2008 al 67esimo), ed è al terzultimo posto tra i paesi europei. Il fatto è che persistono indici negativi sulla partecipazione delle donne alla vita economica, come quelli che misurano l’occupazione, le retribuzioni o la presenza nelle aree decisionali.

Un modo per cercare di comprendere le criticità per il lavoro femminile è quello di associare gli indici occupazionali alle condizioni sociali che segnalano il livello di sviluppo delle relazioni tra donne e uomini. Questo significa leggere il mercato del lavoro italiano in un’ottica di genere, anche solo attraverso le statistiche che lo rappresentano, come fa Linda Laura Sabbadini, direttora centrale dell’Istat. E’ evidente, così, che non solo l’Italia è un paese in cui il lavoro femminile incontra ancora barriere all’accesso ed è poi penalizzato in termini di condizioni occupazionali, in particolare nel Sud, ma anche che gli stessi tassi di occupazione riflettono i vincoli dettati dal ruolo delle donne nel modello di condivisione delle responsabilità familiari.

Il tempo dedicato dalla coppia al lavoro “di cura” nella famiglia è sbilanciato a svantaggio delle donne, il tempo dedicato dalla coppia al lavoro “per il mercato” è sbilanciato a vantaggio degli uomini. Le donne della “doppia presenza” (come la sociologa Balbo le chiamò negli anni Settanta) continuano a non essere sufficientemente sostenute né dal proprio partner né dalle strutture pubbliche. Chiara Saraceno lo dimostra, con dati alla mano, e anche molte altre ricerche sul tema “donne e lavoro” (di Giannini, Piccone Stella, Zajczyk, per citarne solo alcune) continuano a rilevare come le relazioni di genere, sia in famiglia che nel lavoro, si avvicinano molto lentamente, tra le nuove generazioni, ad un modello paritario. Frutto, questo, di stereotipi di genere, che vogliono le donne in grado di essere responsabili delle decisioni familiari, ma non in grado di essere responsabili delle decisioni pubbliche e professionali?

Da parte loro, le donne attivano decisamente strategie verso la parità con gli uomini, anche se questo costa in termini di maggiore fatica, specie domestica, e nel lavoro restano i differenziali di orario e di retribuzione o di blocco delle carriere. Sarà sufficiente commentare solo alcuni dati per osservare tali strategie, con l’avvertenza che considereremo la popolazione femminile nel suo complesso, anche se la distinzione, ad esempio per origine sociale o capitale culturale, permetterebbe di comprendere meglio il livello di sviluppo delle relazioni di genere.

Una prima strategia femminile riguarda l’investimento in istruzione. Secondo i dati Istat, gli ultimi decenni sono caratterizzati dalla crescita del livello di istruzione delle donne italiane, anche se, come si è visto, si registra ancora il divario con gli altri paesi europei[1]. In particolare, secondo le ultime rilevazioni, è nella fascia di popolazione tra 25 e 44 anni che le donne con un titolo superiore sono relativamente più numerose degli uomini. Tra gli anni scolastici 1970/71 e 2005/06 il tasso di conseguimento del diploma per le donne è più che triplicato e le diciannovenni che raggiungono il diploma (sono quasi l’80%) diventano più numerose dei ragazzi. Anche per quanto riguarda la laurea, le ragazze hanno fatto il “sorpasso”, superando da tempo il numero di ragazzi iscritti e oltre il 28,1% delle 25enni raggiunge la laurea, contro il 19% tra i ragazzi. Altre fonti statistiche, come il Miur e AlamaLaurea, mostrano che, per di più, le ragazze hanno migliori performance nel loro curriculum universitario, che l’aumento dell’investimento in istruzione registra lievi differenze tra le differenti aree del nostro paese, e che, se in passato le donne sceglievano i percorsi umanistici e quelli finalizzati all’insegnamento, di recente vanno sempre più scegliendo discipline e percorsi tradizionalmente maschili, come la laurea in ingegneria.

Questi processi hanno delle forti implicazioni sulle relazioni di genere, sia nella dimensione di coppia che nel mondo del lavoro. L’effetto del maggiore impegno femminile verso la scolarizzazione è quello della crescita di coppie in cui la donna ha un titolo di studio uguale o addirittura più elevato del partner (dal 73,7 per cento del 1993-94 al 75,9 per cento del 2001-02) e ciò è ancor più evidente se si analizza la dinamica all’interno delle generazioni, mentre le differenze territoriali che vedevano in particolare nelle regioni del Nord la donna più istruita dell'uomo, vanno gradualmente attenuandosi. Nella coppia, più le donne sono istruite più hanno spazio nei processi decisionali che riguardano la famiglia, e questo ben si rileva tra le generazioni più giovani. Se al crescere del titolo di studio aumenta la condivisione delle decisioni familiari, il modello paritario appare più complicato quando in famiglia la donna lavora e ancora di più quando ci sono i figli.

Le donne italiane partecipano sempre più al mercato del lavoro. Dal 1993 al 2008, i tassi di attività femminile passano dal 43,9% al 50,7%, i tassi di occupazione dal 37,8% al 46,6%, i tassi di disoccupazione dal 13,9% al 7,9%. Tuttavia, tra le occupate cresce il lavoro flessibile come una opportunità per la conciliazione tra i vari compiti familiari e di lavoro. Il lavoro part-time e a tempo determinato aumenta in termini assoluti per donne e uomini ma l’incidenza percentuale è più alta per le donne, specie per il lavoro part-time. In un interessante contributo Istat, Lucarelli e Ricci[2] notano non solo la persistenza di differenze di genere tradizionali ma anche la presenza di vincoli molto forti alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, specie quelle che vivono condizioni di disagio sociale o che sopportano carichi eccessivi di responsabilità familiari.

Si osservi il segmento particolare costituito dalle donne che lavorano e hanno figli. In Italia i tassi di occupazione femminile diminuiscono all’aumentare del numero di figli, e questo accade ancora di più al Sud, dove si registrano più figli. I tassi di occupazione italiani delle donne, rilevati dall’Istat nel rapporto annuale delle famiglie del 2005, passano dall’83,8% per le single da 35 a 44 anni al 56,4% delle donne in coppia con figli, fino al 38,8% delle donne in coppia con tre figli e più. Oggi, poi, in un quadro generale di crisi economica, i dati Istat più recenti (2007) rivelano che nelle famiglie italiane, il tasso di occupazione delle madri si è ridotto molto di più di quello dei padri, ed è il 48,5% per le donne e l’83,6% per gli uomini. In particolare, se il numero dei figli è uno, le percentuali dei tassi di occupazione di donne e uomini sono rispettivamente 50,1% e 80,2%, se il numero di figli è due sono rispettivamente 49,5% e 86,6%, se il numero di figli è tre o più sono rispettivamente 38,1% e 64,1%. Osservando le percentuali nelle fasce di età più giovani, nella classe d’età 25-34 anni e ancora di più nella classe d’età 35-44 anni, si nota che aumenta il divario di genere.

Negli anni, comunque, l’asimmetria dei ruoli genitoriali appare ridotta, certo meno al Sud che al Nord Italia, perché aumentano, anche se di poco, gli uomini che “aiutano” e perché aumenta, anche se solo di 1 minuto l’anno, il tempo che gli uomini dedicano ai compiti domestici. Il modello paritario di condivisione dei compiti familiari è lungi dall’essersi realizzato, ma, come in varie recenti occasioni la Sabbadini ha fatto notare, nel frattempo le donne adottano strategie di organizzazione dei tempi e dei compiti domestici, scegliendo di diminuire il tempo dedicato al lavoro familiare (-33 minuti), dedicando più tempo ai figli e meno alle faccende domestiche, ricorrendo all’aiuto informale dei parenti o alla crescente presenza straniera (come le badanti) quando non sono disponibili i servizi pubblici della conciliazione tra vita e lavoro.

In conclusione, specie le nuove generazioni femminili con più elevato livello di istruzione rinunciano raramente al lavoro, fosse anche part-time, ma non rinunciano nemmeno ai figli, pur rinviando la condizione di madre ad un’adultità definita dai percorsi di lavoro più che dall’età procreativa. Sono strategie femminili, quindi, che intendono contrastare quegli stereotipi di genere, prima ricordati, perché le donne non rinunciano più ai propri percorsi formativi lavorativi, pur assumendo su di loro, in una certa fase, le responsabilità familiari. Due strade verso modelli paritari di genere sembrano aprirsi alle nuove generazioni femminili: formulare strategie di maggiore coinvolgimento degli uomini nei luoghi domestici e mobilitarsi per far sì che le competenze decisionali nei luoghi pubblici e professionali siano sempre più riconosciute, non fosse altro come valore aggiunto di genere.

[1] Nota La proporzione di popolazione con almeno un diploma di scuola secondaria superiore fornisce una misura del livello complessivo dell’istruzione della popolazione. L’indicatore può essere calcolato sia per genere sia per classe di età della popolazione. L’ISCED è la classificazione internazionale dell’istruzione e i livelli da 3 a 6 comprendono l’istruzione secondaria superiore e quella universitaria e post-universitaria. Il tasso di conseguimento del diploma indica la proporzione di diplomati dell’anno rapportati a 100 giovani 19enni. Il tasso di conseguimento della laurea è dato dal numero di laureati rapportati a 100 giovani 25enni.

[2] Nota C. Lucarelli, G. Ricci, Working times and working schedules: the framework emerging from the new Italian LFS in a gender perspective, n. 3/2007

(*) Prof.ssa di Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro, Università Federico II di Napoli




Senza la politica, il diritto non basta
di Roberta Bortone (*)

Ogni anno, alla pubblicazione del Global Gender Gap Report elaborato dal WEF, nel nostro Paese si sente parlare della questione femminile in modo un po' più evidente del solito, ed ogni anno ci si interroga su che cosa serva per migliorare la partecipazione delle donne soprattutto sui versanti politico ed economico, che quest'anno fanno sprofondare l'Italia al settantaduesimo posto su 134 della classifica mondiale, davanti solo alla repubblica Ceca ed alla Grecia per quanto riguarda i Paesi Europei.

Eppure, dal punto di vista delle regole, cioè del diritto, tutto sembrerebbe all'avanguardia, almeno sul versante della partecipazione al mercato del lavoro.

Sono molti anni, ormai, che il nostro diritto del lavoro si è dotato di un apparato normativo di contrasto ad ogni forma di discriminazione di genere e di promozione delle pari opportunità per le donne nei rapporti di lavoro. Ma tutti questi interventi legislativi non hanno mai sortito gli effetti almeno in apparenza desiderati.

Proverò a mettere in evidenza le lacune del sistema, o - forse meglio - i motivi per i quali il sistema normativo non morde nella realtà.

Prima di tutto occorre precisare che il controllo definitivo sull'applicazione della normativa antidiscriminatoria spetta ai giudici. Il nostro sistema giuridico, infatti, è tutto incentrato sulla risorsa giudiziaria come strumento per sanzionare la mancata applicazione delle leggi e le norme antidiscriminatorie non fanno eccezione: se viene posto in essere un comportamento discriminatorio bisogna rivolgersi al giudice che ne accerti l'illegittimità e condanni l'autore del comportamento ad interromperlo.

Ma quanto è utile un simile sistema nelle questioni di cui parliamo? Si tratta di una materia in fondo sfuggente, dove spesso le discriminazioni sono difficili da dimostrare con prove in grado di convincere i giudici che quella data condotta sia stata occasionata da motivi discriminatori. E d'altronde la c.d. prova statistica - che valuta l'impatto negativo di genere sulla base dei semplici numeri - stenta ad essere utilizzata perché in fondo la sua applicazione finirebbe per imporre il rispetto di quote e sulle quote non sono d'accordo neppure le donne italiane.

Ancora più spesso, poi, accade che la discriminazione sia frutto dell'applicazione di stereotipi o di criteri selettivi che sembrano esenti da accuse e che invece producono effetti discriminatori nei confronti di una pluralità indeterminata di donne: si tratta delle discriminazioni indirette a carattere collettivo, rispetto alle quali il ricorso giudiziale è del tutto inutile se affidato alla singola donna.

Proprio per questo, a partire dal 2000, si è valorizzato il ruolo delle consigliere di parità, cioè di soggetti esponenziali dell'interesse comune a tutte le donne, anche sul versante della via giudiziaria, in modo che la consigliera possa agire in giudizio in tutti i casi nei quali il comportamento abbia danneggiato un numero imprecisato e indefinito di donne.

Ma questo ancora non è stato sufficiente. E non solo perché le consigliere di parità non sono dotate di una strumentazione organizzativa e finanziaria che consenta loro di svolgere efficacemente questo compito.

In realtà, anche se è doveroso che le discriminazioni siano combattute pure nelle aule giudiziarie, le questioni di genere non sono risolvibili in quelle sedi perché, nella stragrande maggioranza dei casi, coinvolgono problematiche che esulano dalla stretta gestione dei rapporti di lavoro.

Proviamo a fare un paio di esempi.

Una donna che "va in maternità", cioè che si assenta da lavoro per diversi mesi, considerate le rapidissime innovazioni organizzative, è destinata a rientrare in un ambiente di lavoro molto diverso da quello che ha lasciato e per di più, per prendersi cura del bambino, non sarà disponibile a lavorare oltre l'orario normale. Perciò, senza un adeguato supporto al suo rientro e in un'organizzazione incapace di valorizzare le differenze individuali e ancora fondata su criteri quantitativi, la carriera della donna è destinata a restare schiacciata.

Ancora: se i livelli alti di certe carriere sono collegati al possesso di professionalità verso le quali sono indirizzati soprattutto uomini, la sottorappresentazione delle donne su quei livelli non si risolve senza un intervento sugli stessi percorsi scolastici e formativi.

In entrambi questi casi, e soprattutto nel primo, potremmo concludere di essere in presenza di discriminazioni indirette azionabili davanti al giudice, ma in caso di ricorso quest'ultimo dovrebbe intervenire sul contesto esterno al comportamento del datore di lavoro. Non è un caso se la legge riconosce che il giudice possa condannare all'adozione di piani di rimozione delle discriminazioni, cioè all'adozione di azioni positive; ma è evidente che queste ultime sono strumenti organizzativi delicati e complessi che si coniugano male con i rimedi giudiziari.

Dovremmo allora concludere con un pessimistico riconoscimento d'impotenza del diritto? Certamente no, ma è necessario spostare l'attenzione dalle regole del rapporto di lavoro agli strumenti giuridici espressione più ampia della politica.

Il precedente Governo, infatti, per la promozione della partecipazione delle donne al mercato del lavoro aveva utilizzato alcune leve che si erano rivelate utili, tanto che l'Italia era salita nella classifica dello stesso Global Gender Gap Report.

La più importante credo sia rappresentata dall'incentivo all'assunzione di donne nelle zone in cui il tasso di occupazione femminile è al di sotto degli indici comunitari, attuato attraverso una riduzione del costo del lavoro. A questo si sono aggiunte altre misure - quasi tutte contenute nel Protocollo su Lavoro e Welfare del 23 luglio 2007 - in tema di part-time, di tutela previdenziale dei lavori discontinui, etc.

Al di là del contenuto specifico dei singoli interventi, quello che emergeva era la volontà politica di imprimere una svolta significativa nella condizione professionale delle donne nel nostro Paese. Tanto che nel rapporto annuale alla Commissione Europea sullo stato di attuazione della Strategia di Lisbona, il Governo aveva voluto inserire una Nota aggiuntiva dedicata alle donne, al fine di dare particolare rilievo alla questione di genere.

Ciò che voglio dire con questo rinvio è che se si vuole davvero promuovere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro in maniera sostanzialmente paritaria a quella degli uomini, bisogna mettere in pratica una serie di misure, a partire da quelle di tipo economico che rendano più appetibile l'assunzione di donne, fino a comprendere quelle che tendano a migliorare il livello culturale del nostro sistema sociale con riferimento a questi temi, soprattutto attraverso il contrasto agli stereotipi di genere.

Si tratta senza dubbio di un percorso lungo e complesso che potrebbe comprendere ad esempio interventi di diffusione di una nuova cultura della parità effettiva tra i generi anche attraverso azioni mirate nelle scuole, oppure misure che premino - ad es. con l'assegnazione di punteggi aggiuntivi nelle procedure di appalto - le aziende virtuose sul versante di genere.

Al contrario di quanto sarebbe augurabile, i messaggi che l'attuale Governo manda sono di segno opposto.

I problemi del lavoro delle donne e della partecipazione femminile sono scomparsi dall'agenda politica; quando si parla di donne che lavorano il discorso si sposta sui servizi alle famiglie quasi che solo le donne debbano reggere il peso dei compiti di cura familiare; sempre più spesso si sente parlare di "quoziente familiare" per attutire il carico fiscale anche se si sa bene che la sua applicazione rappresenterebbe un notevole disincentivo al lavoro delle donne; si accetta e si diffonde un'immagine della donna concentrata sull'aspetto fisico che davvero farebbe rivoltare le donne negli altri Paesi europei.

Per di più le risorse finanziarie che sono necessarie per mettere in atto politiche efficienti, tendono a scomparire quando si tratta di donne. Ma questo è un vizio antico e - per usare un'espressione di moda nella comunicazione - bipartisan.

(*)Prof.ssa Roberta Bortone, Diritto del lavoro Universita' La Sapienza Roma




Sfida al femminile
di Micaela Pallini (*)

Ancora ricordo le esatte parole di mio padre quando gli ho chiesto di entrare in azienda: “E’ una tua scelta, ricordati che me lo hai chiesto tu e non te l’ho chiesto io!”. Effettivamente non ricordo una sola volta in cui mi abbiano chiesto, spinto o suggerito di lavorare nell’azienda di famiglia.

La mia famiglia da oltre 130 anni produce liquori e sciroppi di frutta, il nostro marchio principale è il Mistrà Pallini in l’Italia, mentre con il Limoncello Pallini siamo leader di mercato negli USA e nel settore “Duty Free” e siamo presenti in oltre 80 paesi del mondo. Mio padre, attuale presidente dell’azienda, rappresenta la quarta generazione della famiglia attivamente presente in azienda ed io la quinta nonché la prima donna della famiglia con incarichi direttivi.

Mio padre non mi ha mai diretto verso l’azienda, in cuor suo ha sempre ritenuto che sia una vita troppo complessa per una donna. Non ne ha mai fatto una questione di merito o capacità ma essere imprenditore in questo paese, anzi piccolo imprenditore è una sfida continua che mal si sposa con il doppio ruolo di lavoratrice/mamma che spesso ricopre una donna. Inoltre la forte connotazione internazionale dell’azienda ci porta spesso in giro per il mondo, complicando sicuramente la vita ad una mamma di un bimbo di due anni come sono io.

“Forte Apache” è il nomignolo con cui mio padre ha ribattezzato la nostra azienda: una vita assediata da vari problemi, dal traffico alle difficoltà burocratiche del sistema italiano. Locata nella disgraziata Area Industriale Tiburtina, una delle zone a più alta densità di traffico di Roma, subiamo in pieno i disagi di una capitale simbolo di un paese che non ha affrontato nodi quali quello infrastrutturale, che aggiunge costi e sfide ulteriori al lavoro di tutti i giorni.

Effettivamente alle sfide legate al mercato (la produttività, l’attività aziendale nel suo complesso), in Italia si sommano i disservizi cronici (sia per l’azienda che per la vita quotidiana), l’onerosità dei rapporti con la Pubblica Amministrazione e la fragilità del nostro sistema paese, tutti punti che i nostri concorrenti esteri non devono affrontare e che rendono la nostra vita lavorativa più dura e complessa rispetto ai nostri colleghi esteri.

Nonostante tutto questo sia vero, non ho mai rimpianto la mia scelta. Sono entrata in azienda 10 anni fa dopo un lungo periodo universitario. Dopo il dottorato di Ricerca in Chimica ed alcuni assegni di ricerca, ho capito che la vita universitaria in Italia, non era per me. La scelta sarebbe stata di andare all’estero ma dopo aver collaborato con mio padre per circa sei mesi sulla riformulazione di alcuni nostri prodotti, ho subito il fascino e l’attrazione della vita in azienda.

Attualmente dirigo lo stabilimento, supervisionando acquisti, produzione e nuovi prodotti oltre a seguire alcuni dei maggiori clienti esteri. In una piccola azienda l’Amministratore Delegato è praticamente presente su ogni fronte, e la fatica nell’ultimo periodo segnato dalla crisi economica comincia a farsi sentire.

Non so se la presenza di un Amministratore donna abbia segnato una differenza, sicuramente porgo un orecchio diverso ai bisogni dei nostri dipendenti e questa è materia di scontro con la generazione precedente. Dalla qualità della mensa, ai regali di Natale o alla rotazione degli straordinari in modo da non creare malumori o diversità di trattamento.

Il mio prossimo target? Ottenere un maggior coinvolgimento dei nostri dipendenti. Solo con un team motivato di collaboratori, una piccola azienda riesce ad emergere. Non avendo le possibilità economiche di un grande gruppo sto puntando sulla fedeltà e l’attrattiva per quei valori che la mia famiglia mi ha trasmesso per tutta la vita e che ho trovato applicati in pieno in azienda: onestà, franchezza, e rispetto per gli altri.

Lavorare in team è la chiave che cerco di perseguire; solo con una giusta divisione di compiti e trovando per ognuno il posto che gli consente di mettere a frutto le sue capacità, ci permetterà di fare i passi in più necessari in questo momento. E solo con un team motivato in cui tutti vadano nella stessa direzione, possiamo affrontare questi anni così duri ed trovare anche quegli spazi che ci permettano di essere più vicini alle nostre famiglie.

E mio padre? Per ora sta a guardare.


(*)Micaela Pallini è Amministratrice Delegata dell'ILAR spa





Chi comanda è uomo, chi esegue è donna
di Massimo Massella (*)

Se nel nostro paese le donne costituiscono attorno al 30% dell’occupazione, per il settore pubblico il quadro è affatto diverso. Confinando il calcolo ai settori contrattualizzati e quindi escludendo comparti come le Forze dell’ordine dove la presenza femminile è ancora nettamente minoritaria, la quota delle donne è pari ad oltre il 60%, corrispondenti a circa un milione e 700mila individui.

Il fenomeno peraltro ha conosciuto un netto incremento negli ultimi 20 anni raggiungendo la quota appena citata a partire da valori poco sopra il 50%. Ad eccezione di periodi di assestamento momentaneo, la quota di occupazione femminile è costantemente cresciuta. Si potrebbe dire che è proprio grazie al settore pubblico che il nostro paese può mostrare una situazione di tasso di occupazione femminile meno sperequata a fronte delle altre maggiori economie sviluppate.

Osservando la questione con un’ottica geografica si osserva come nell’Italia meridionale ed insulare, la quota di donne del settore pubblico è sostanzialmente pari a quella degli uomini, mentre nella parte settentrionale del paese, in alcune regioni esse oltrepassino il 60%. Il dato del Sud, se da un lato sembrerebbe illustrare una condizione più equilibrata è invece, più probabilmente da interpretarsi come la difficoltà occupazionale degli uomini a trovare occupazione nel settore privato.

Focalizzandosi nei singoli comparti, la quota di occupazione femminile trova una ulteriore caratterizzazione, dai tratti immediatamente intuitivi. E’ nella Sanità e nella Scuola che le donne trovano le maggiori opportunità occupazionali: si va da una percentuale prossima al 60% per il primo comparto a quasi l’80% nel secondo. Questa caratterizzazione di sapore “antico” dell’occupazione femminile nel pubblico impiego non deve tuttavia far dimenticare, ad esempio, che sia nel comparto dei Ministeri che in quello delle Autonomie Locali, le quote uomini/donne sono del tutto simili.

Andando alla ricerca di altre specificità, è utile rimarcare come siano le donne ad usufruire in larga parte della tipologia di contratto flessibile rappresentato dal part-time, con oltre l’80% dei casi. La maggiore facilità di ottenere questa tipologia nel settore pubblico sta probabilmente fra le motivazione che spiegano una certa predilezione delle donne a trovare impiego nel settore pubblico.

Un altro tema di grande rilievo riguarda il grado di istruzione. In questo caso per fissare alcune idee è utile concentrarsi su di un singolo comparto, quello delle Autonomie Locali, che presenta quote di uomini e donne abbastanza simili, con una diffusione abbastanza omogenea sul territorio e con la presenza di una grande numerosità di amministrazioni, alcune molto grandi, come i comuni delle città metropolitane, alcune molte piccole come quelle di una ampia parte dei municipi del nostro paese.

Ebbene, in questo comparto, fra coloro che detengono il titolo di laurea le donne sono è nettamente preponderanti, con il 56% rispetto al 44% degli uomini. Nella specializzazione post laurea si vede una situazione di sostanziale parità. Anche passando alla licenza media superiore, la quota di donne è senza dubbio superiore. Una ampia quota di uomini occupati nel settore si è fermato alla scuola dell’obbligo, con una fetta superiore al 60%. Si può ben dire che nella media del comparto le donne sono decisamente più istruite.

Nel rapporto fra carriera e livello di istruzione è possibile individuare alcuni rilevanti fatti stilizzati. Gli uomini e le donne che possiedono il titolo della scuola dell’obbligo si fermano in massima parte nella categorie A e B. Qualcuno, per ambedue i sessi raggiunge tuttavia anche la categoria D. Coloro che possiedono la licenza superiore sono concentrati nella categoria C, con una buona prevalenza di donne. Anche in D si trova molto personale con la licenza media superiore. Nella categoria D si trovano quote del tutto simili di personale con la laurea ed anche in questo caso non troppo disomogeneamente distribuite fra uomini e donne. Sino a questo livello di inquadramento, tuttavia, le donne con la laurea presentano quote più elevate.

Il quadro cambia bruscamente passando alla Dirigenza. Quasi il 60% sono uomini laureati e circa il 30% donne, sempre laureate. Gli altri titoli sono del tutto marginali, compresa la specializzazione post-laurea. Si osserva qui un fenomeno, spesso posto in rilievo e certamente non confinato al settore pubblico, rappresentato dalla difficoltà delle donne a raggiungere gli apici della carriera. Diversi osservatori hanno guardato a questi assetti professionali come evidenza di un fenomeno di “segregazione”.

In generale le donne patirebbero non tanto (o non solo) di discriminazione salariale, quanto di una minore facilità a raggiungere posizioni caratterizzate da migliori condizioni retributive e professionali. Colpisce a questo proposito che questa “difficoltà” non si presenti unicamente nell’inquadramento dirigenziale ma cominci a presentarsi nelle posizioni che preparano alla dirigenza stessa vale a dire nelle qualifiche apicali della categoria D.

Per inquadrare meglio questo fenomeno qualche dato di riferimento esterno può risultare senza dubbio utile. In Europa le donne guadagnano circa il 15% in meno degli uomini in termini di retribuzione oraria lorda. Nel nostro paese questo valore è inferiore al 10% e più contenuto di quello presente in Danimarca, Olanda e Gran Bretagna. Le risultanze cambino nettamente se si passa a quantificazioni non più orarie ma mensili (o annuali) con un differenziale attorno al 25%. I riferimenti sono al complesso dell’economia.

Tale differenziale presenta poi una elevata eterogeneità al variare delle caratteristiche dei lavoratori e delle imprese. Tende infatti a crescere con l’età e con il titolo di studio. Quest’ultimo aspetto è apparso evidente ed immediato in quanto visto prima a proposito di uno specifico comparto del Pubblico Impiego del nostro paese. In generale si osserva come le scelte (o le necessità) specifiche delle donne in termini di maternità e cura della famiglia vanno a penalizzarne gli esiti professionali attraverso orari più ridotti e conseguente minore anzianità di servizio. Più in generale si vede anche che la possibilità del part-time è uno strumento di grande importanza per disincentivare l’uscita dal mercato del lavoro delle neo-madri e per garantire loro retribuzioni orarie meno penalizzanti.

Va infine posto in evidenza come questo differenziale si declini diversamente fra settore privato e pubblico. Nel settore pubblico il differenziale di genere, misurato come retribuzione oraria è più contenuto rispetto al settore privato, e prossimo al 5%. Lo stesso resta valido passando alla quantificazione come retribuzione lorda mensile, pur se il valore si innalza al 20%, in funzione del minor numero di ore lavorate.

Una notazione finale consente di riallacciarsi alla questione vista in precedenza dei titoli di studio. Volendo calcolare in modo metodologicamente robusto la presenza o meno di “discriminazione salariale”, a parità di tutto il resto (orario di lavoro, settore di impiego, tipologia di contratto, dimensione aziendale, livello di inquadramento, ecc.) il maggior grado di istruzione delle donne dovrebbe tendere a consentire retribuzioni più elevate.

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(*) Massimo Massella: presidente dell'ARAN (Agenzia per la rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni)




La visione ''try and go''
di Cinzia Rossi (*)

Il sostegno e la proposta della diffusione di modelli di “flessicurezza” rappresenta la declinazione della Strategia dell’Unione Europea orientata a “combinare una sufficiente flessibilità nei dispositivi contrattuali … e la sicurezza per i lavoratori di mantenere il loro posto di lavoro o di essere in grado di trovarne uno nuovo in tempi brevi oltre all’assicurazione di un reddito adeguato nei periodi di transizione tra due lavori”.

Questa semplice locuzione, a nostro avviso, implica la consapevolezza delle valutazioni circa la debolezza dei risultati sino ad ora riscossi con le misure già sperimentate

In particolare l’attuale contesto di recessione economica evidenzia da una parte la tensione verso il superamento del paradigma fondato sulla dialettica tra norme – sanzioni – aiuti, e per un altro verso l’emergenza dell’introduzione di approcci “try and go” che per la messa a fuoco della scelta contrattuale puntano sostanzialmente sulla scommessa della negoziazione tra le parti (impresa, sindacato) e vedono il ruolo della legge piuttosto che in chiave restrittiva, in chiave di “guida e sponda”[1].

Peraltro può dirsi universalmente condivisa la constatazione che il modello del mercato del lavoro duale si materializzi in una condizione di apartheid tra 9 milioni di lavoratrici e di lavoratori protette/i in quanto dipendenti, e altri nove milioni di lavoratrici e lavoratori sostanzialmente dipendenti e “che oggi portano tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno”, come può altrettanto universalmente essere condivisibile la conclusione che tale quadro “non può essere l’espressione di un paese moderno che gode della potenzialità propria dell’attività di comparazione con le pratiche di paesi stranieri più civili” [2] .

A tutto ciò va aggiunto che le ormai numerose analisi svolte evidenziano da una parte l’iniquità e dall’altra l’inefficienza di tale modello del mercato del lavoro duale all’interno del quale:

· l’iniquità viene originata dalle posizioni di rendita ed implicano l’altra faccia della medaglia della precarietà di lunga durata e della disattenzione verso forme di merito e di valutazione oggettiva di esigenze tecniche e produttive;

· l’inefficienza è materializzata dall’inibizione a investire nella formazione e nello sviluppo delle lavoratrici e dei lavoratori precarie/i, ma anche all’indebolimento costante di quella parte del mondo imprenditoriale portatrice di un approccio etico, rispetto alla concorrenza sleale conseguente all’utilizzo di forza lavoro non legale.


La crisi economica e occupazionale ha inevitabilmente portato all’aumento della platea dei soggetti da inserire in processi di politica attiva e di inserimento o reinserimento lavorativo, acuendo l’esposizione sul mercato dei target già definiti “deboli”. Il ruolo dei servizi al lavoro, pertanto diventa rilevante non solo per la platea “tradizionale” di intervento, ma anche per il target di percettori di ammortizzatori sociali nelle sue diverse configurazioni.

Le donne, purtroppo, rappresentano un target specifico del mercato del lavoro, poichè soggetto doppiamente esposto agli effetti della crisi, sia direttamente che di riflesso, in ambito di gestione del nucleo familiare.

E’ da sottolineare quanto in Italia ancora oggi la divisione del lavoro per generi costituisca un impedimento alla flessibilità del mercato del lavoro, comportando una diminuzione del numero di potenziali candidati a coprire le offerte di posti di lavoro: il “glass ceiling” rappresenta un'attuale ed insuperata barriera (Guida alla valutazione d’impatto rispetto al sesso, Fonte: www. ec.europa.eu).

Ancor prima dell’attuale crisi, in Italia, il mercato del lavoro ha iniziato col perdere una quota di lavoro femminile, andando ad alimentare il divario con l’Unione Europea. Dalla metà degli anni ‘90, infatti, la partecipazione delle donne all’incremento dell’occupazione è stato, per la prima volta, nel 2005, inferiore a quello degli uomini. La quota delle lavoratrici sul totale degli occupati è scesa dal 39,2% del 2004 al 39,1% del 2005, in evidente opposizione rispetto al trend europeo (Fonte: Lo scenario economico provinciale, Analisi strutturale e caratteristiche territoriali, Camera di Commercio Roma, 2006).

La scarsa partecipazione delle donne al lavoro si associa anche ad una loro maggiore presenza in forme contrattuali atipiche o flessibili, con maggiori rischi di precarizzazione. Sono inoltre riscontrabili nel territorio italiano trattamenti differenziati, talvolta al limite della discriminazione, per ciò che riguarda la retribuzione e l’avanzamento di carriera.

Negli ultimi decenni gli studi che affrontano il tema della/e atipicità del lavoro, sottolineano le difficoltà nell'indagare un fenomeno dai molteplici significati, per quanto concerne sia i soggetti che i settori economici coinvolti. In molti casi, constatata la ricorrenza e la correlazione tra atipicità del lavoro e discriminazione di genere si affronta il tema partendo, a volte, dall'incrocio tra tali variabili come dato ormai incontrovertibile, altre volte, iniziando più cautamente a distinguere prima i contorni del fenomeno dell'atipicità nel lavoro e solo successivamente e distintamente, in associazione a quello delle pari opportunità tra uomini e donne.

Questo secondo approccio, parte dal presupposto che il lavoro non è il solo "volano" di inclusione sociale delle cittadine anche se rappresenta il più battuto dai legislatori che lo includono come protagonista del sistema economico e quindi della redistribuzione di reddito e risorse. In realtà accanto agli interventi in sostegno della donna, atti ad esempio a sostenerla nella maternità, si è cominciato anche a parlare e poi anche timidamente ad intervenire, a sostegno del ruolo della figura maschile, non solo nel momento della nascita di un figlio ma anche successivamente, per suddividere più equamente i compiti tra i coniugi.

In altri casi il tema dell'atipicità è più in generale legato ai nuovi modelli culturali che mettono sempre più al centro il valore del tempo per sé nell'ambito di un mix tra tempo libero e tempo di lavoro in cui risulta sempre più difficile individuare quale parte è funzionale all'altra o ne è totalmente svincolata.

D'altro canto, in periodi di crisi come quello attuale, dove il lavoro tipico assume un ruolo predominante nei nuovi ingressi nel mondo del lavoro rappresentando poi, per un numero crescente di persone, una vera e propria trappola, i ricercatori hanno iniziato ad introdurre anche la variabile della "volontarietà" della scelta tra tipicità del rapporto di lavoro. Una distinzione che nel caso del lavoro femminile appare quantomai appropriata, andrebbe fatta appunto tra lavoro atipico scelto e subìto proprio per sottolineare il fatto che una volta raggiunto il pieno inserimento nel mercato del lavoro e percorsi tutti i passi nel proprio accrescimento professionale e formativo, il sistema economico dovrebbe poter offrire a tutti e a tutte quantomeno l'opzione di poter scegliere se poter progettare la propria vita, privata e lavorativa, lungo un periodo che vada al di là di una scadenza contrattuale. Anche nelle classi di età in cui l'atipicità del contratto di lavoro dovrebbe rappresentare solo un lontano ricordo di quella fase di tirocinio ed esperienza funzionale al periodo più "maturo" della propria carriera, il lavoro atipico spesso si trasforma in un vera e propria trappola: per quasi il 70% dei giovani tra i 33 ed i 39 anni facenti parte di un campione di soli lavoratori atipici, intervistato nell'ambito di una recente indagine, l'atipicità rappresenta ormai la norma[3] e a nulla valgono i titoli accademici (83,2% è in possesso di una laurea e il 55,9% di un master o una specializzazione) o le esperienze pregresse. Per il 48,3% degli atipici compresi in questa classe di età, infatti, l'attuale condizione di lavoro dura da oltre 3 anni e solo per il 16,1% ha rappresentato una fase transitoria dai 2 ai 3 anni.

Recenti indagini[4], hanno inoltre inserito il tema delle pari opportunità, al di là dei temi della maternità e della gestione familiare, quale variabile fondamentale della qualità del lavoro che prescinde dal genere, proponendo un'ipotesi sociologica alternativa: non è tanto il dover conciliare la carriera con una vita familiare o con le esigenze di educazione e gestione dei figli a penalizzare le donne, quanto la condizione stessa, in sé e per sé, di essere donna: non si spiegherebbe altrimenti il fatto che le donne registrino un minor numero di passaggi di carriera o di presenze nelle carriere direttive anche nelle fasce di età lavorativa più giovani. Si tratta quindi di un problema di pregiudizi e di discriminazioni da parte maschile che uniti ad alcuni stereotipi sociali, si amplificano poi nei processi di selezione e lungo tutto il percorso lavorativo della donna.

La possibilità di conciliare tempi di vita e di lavoro offerta dai lavori atipici è inoltre un mito che andrebbe quantomeno ridimensionato, dal momento che oltre il 40% delle donne (ed oltre il 50% degli uomini) non la indica tra gli elementi di soddisfazione del proprio lavoro[5], mentre solo per chi lavora tramite collaborazioni occasionali essa rappresenta un'importante leva motivazionale (72,5% contro il 42,3% tra i Co.Co.Pro).

Tali percentuali, inoltre scendono ulteriormente se il presunto maggior tempo a disposizione dovesse essere dedicato alla famiglia: 36,3% tra gli uomini e 38,7% tra le donne[6]. La difficoltà di fare progetti o effettuare determinate scelte, ai primi posti tra le possibili cause di insoddisfazione di un contratto di lavoro atipico, (66,1% dopo la mancanza di tutele, con il 68,6% e l'incertezza del posto di lavoro con il 79,6%) oltre a preoccupare maggiormente le classi di età più mature (74,7% tra gli atipici compresi tra i 33 ed i 39 anni), coinvolge cospicuamente soprattutto le donne (76,3% contro il 52,8% degli uomini) e chi è contrattualizzato con un Co.Co.Pro (72,3%) o con un contratto interinale (73,7%)[7]: ciò sta ad indicare che l'atipicità del rapporto di lavoro colpisce negativamente in diversa misura a seconda del livello i precarietà insito nel contratto e a seconda del genere.

Il tema delle disparità di diritti e di opportunità tra uomini e donne viene anche messo in relazione ad un altro elemento di qualità del lavoro[8], ovvero le prospettive di carriera che in un contesto di lavoro atipico può tradursi anche in crescita professionale, arricchimento contenutistico del proprio lavoro, gestione progetti complessi con responsabilità crescenti.

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Sebbene la mobilità orizzontale non sempre sia indice di crescita professionale, se non per le categorie lavorative di vertice (alte professionalità, dirigenti di imprese multinazionali, ecc.), occorre sottolineare che la donna ha meno opportunità dell'uomo quantomeno di uscire da eventuali "trappole" lavorative. Una volta entrata pienamente nel doppio ruolo, infatti, la donna difficilmente ha l'opportunità, in assenza di un welfare adeguato, di rimettersi in gioco.

Alcune problematiche in gioco del lavoro atipico in relazione alle differenze di genere

La possibilità di sostenersi in una condizione di lavoro atipico è spesso garantito dall'assistenza della cosiddetta famiglia lunga che immette una sorta di "distorsione" nel mercato, innescando un meccanismo al ribasso delle retribuzioni. Una delle sfide che si pone ai ricercatori è verificare quanto la situazione di atipicità sia voluta dai soggetti coinvolti e quali problemi vanno incontro in caso di involontarietà (ad es. la cosiddetta "trappola della precarietà" dove può cadere un soggetto ultratrentenne di genere femminile)
In un mercato di libera concorrenza, ai limiti di una completa "deregulation", le conoscenze e le abilità di singoli individui sono offerte sul mercato spesso con un gioco al ribasso: ancora una volta la donna deve vincere difficoltà superiori agli uomini in quanto a credibilità professionale, forza contrattuale, ecc., sommando quindi oltre agli svantaggi dell'atipicità del lavoro che la vede maggioritaria rispetto ai colleghi uomini, anche gli aspetti più irrazionali e stereotipati delle relazioni sociali in un contesto di libero mercato.
Il sovradimensionamento del sé e della soggettività di contro alla necessità di un livello minimo di solidarietà tra lavoratori della conoscenza: in questo modo il soggetto (forzatamente più debole tranne che per le professionalità di nicchia, di alto livello) è sì libero ma anche fondamentalmente solo di fronte al mercato o semplicemente di fronte al proprio committente (o cliente, per chi si percepisce più come piccolo imprenditore).
La vita professionale di un atipico deve tenere conto della necessità della cura delle relazioni sociali e dei contatti di lavoro utili per mantenere in piedi ulteriori occasioni di lavoro: per la donna probabilmente questo si accentua con in più il fatto che mentre l'uomo nel tempo libero può decidere di investire nella propria formazione, per lei il doppio ruolo che spesso riemerge come pesante zavorra anche nelle coppie giovani rappresenta un forte ostacolo.
Il deterioramento e/o la cristallizzazione del know how in possesso dei singoli individui, soprattutto nel passaggio frenetico da un contratto all'altro, cui si aggiunge la valorizzazione delle competenze trasversali maturate su più ambiti professionali, ma mai ricostruite come bilancio delle proprie “risorse acquisite” e mai ricondotte a sistema attraverso interventi di orientamento sul mercato del lavoro.
Tutti questi elementi sono validi sia per gli uomini che per le donne ma mentre per queste ultime vi è comunque una tappa fissa, la maternità che mal si concilia con l'impegno a tempo pieno che spesso è implicito anche in molti contratti di collaborazione, per gli uomini il prezzo della libertà può continuare ad essere pagato per molto tempo.
[1] Disegno di legge N.1481 ad iniziativa di un gruppo di Senatori presieduto da Pietro Ichino “Disposizioni per il superamento del dualismo del mercato del lavoro, la promozione del lavoro stabile in strutture produttive flessibili e la garanzia di pari opportunità per le nuove generazioni - Comunicazione alla Presidenza della Repubblica del 25 Marzo 2009”.

[2] Idem.

[3] Eurispes, La precarietà dei posti di lavoro, in "17° Rapporto Italia", Roma, 2005.

[4] De Gasperi, M., Podestà, F. Le differenze di genere in quattro organizzazioni del Trentino, Quaderni Progetto Gelso, Trento, 2007

[5] Eurispes, Op.Cit. p.284

[6] Eurispes, Op.Cit.. p.286


[7] Eurispes, Op.Cit. p.28

[8] Curtarelli, M. Le carriere strozzate: evidenze empiriche dalle indagini ISFOL sulla qualità della vita di lavoro in Italia, Paper presentato in occasione della conferenza annuale ESPAnet Italia 2008, Sessione: "Carriere, salari, protezione sociale e opportunità di vita dei lavoratori atipici in Italia e in Europa


[9] Indagine ISFOL, Op.Cit.




(*) Cinzia Rossi: Amministratore della CROSS società di Servizi alla Carriera (www.e-cross.it), Consigliere Nazionale ASSORES, Presidente filiera “Servizi di Orientamento” ASSOKNOWLEDGE CONFINDUSTRIA, Membro di comitati redazionali in riviste di settore, Esperta da 20 anni di Consulenza alla Carriera, autrice di libri e pubblicazioni scientifiche su tale tema.




La pensione per le lavoratrici non standard, un miraggio
di Valeria Filippo

Le donne svolgono spesso lavori atipici in un rapporto stimato di circa una lavoratrice su cinque.
Questo dato si accentua se si considerano le donne con figli che lavorano mediamente meno ore a settimana: di queste quasi la metà è impegnata non più di venti ore a settimana rispetto a circa il 30% delle altre donne; ricorrendo più spesso al tempo parziale (66% delle madri rispetto al 44% delle altre donne). Infatti, molto spesso le donne con figli, per avere orari di lavoro flessibili e conciliabili con la cura dei figli e degli anziani, accettano occupazioni “atipiche” e quindi anche meno retribuite rispetto a quelle occupazioni definite standard.

Il problema delle basse retribuzioni riguarda la generalità delle donne con impieghi intermittenti, le quali hanno una retribuzione media inferiore sia rispetto agli uomini impiegati con contratti della medesima durata, e sia rispetto ai lavoratori impiegati con contratti a tempo indeterminato.

Infatti si stima che oltre il 75% delle donne con tipologie contrattuali flessibili ha un imponibile medio inferiore ai diecimila Euro l’anno.

La differenza fra uomini e donne non atipici diviene crescente nel corso della carriera lavorativa in quanto, mentre le retribuzioni per gli uomini crescono al crescere degli anni di lavoro, quelle delle donne crescono sempre più lentamente fino a fermarsi verso i quarantacinque anni di età.

Questi dati[1] riguardanti la situazione delle donne occupate in lavori non-standard, da un lato, fanno emergere il problema della stretta connessione fra bassa retribuzione e qualità della vita, e dall’altro, permettono di evidenziare come l’adozione di tipologie contrattuali flessibili si ripercuota inevitabilmente anche sul futuro pensionistico dato che viene meno la garanzia di una prestazione previdenziale adeguata e sufficiente per sé e la propria famiglia.

Occorre infatti, considerare che l’attuale metodo di calcolo ovvero il metodo contributivo, che riguarda le nuove generazioni e che sta sostituendo il metodo retributivo tuttora in vigore per i lavoratori che hanno intrapreso un’attività lavorativa entro il 31 dicembre 1995, si basa sulla corrispondenza fra contribuzione accantonata nel corso della vita lavorativa e prestazione pensionistica futura.

L’applicazione del metodo contributivo, in vigore per tutti i lavoratori assunti dal primo gennaio 1996, in conformità a quanto disposto dalla Legge n. 335/1995 (la c.d. Legge Dini), implica che l’importo della pensione sia strettamente legato ai contributi versati e all’aspettativa di vita al momento della pensione. Questa metodologia di calcolo della pensione segue un apparente principio di equità secondo cui quanto corrisposto viene esattamente restituito con il pensionamento, ponendo in essere, così, un predeterminato rapporto tra il montante della contribuzione e l’importo totale della pensione.

Nello specifico, il sistema prevede anche che, per le lavoratrici che ricadono nel metodo contributivo con meno di sessanta anni (65 per gli uomini), non sarà possibile andare in pensione a meno di non aver raggiunto trentacinque anni di contributi e comunque solo se l’importo della pensione sia del 20% superiore a quello dell’assegno sociale.

Un altro elemento di cui occorre tener conto è che nell’universo dei lavoratori atipici vi sono coloro i quali hanno l'obbligo di scrizione presso la Gestione Separata dell’Inps, in particolar modo i Co.co.pro e gli Associati in partecipazione per i quali è prevista un’aliquota contributiva inferiore a ai lavoratori subordinati anche non impiegati in lavori standard. Infatti mentre per i lavoratori subordinati l’aliquota contributiva versata è pari al 33%, per gli iscritti alla Gestione Separata, ex art. 2, comma 26 della Legge n. 335/95, non assicurati presso altre forme di pensione obbligatoria, l’aliquota contributiva prevista per il 2009 è pari al 25% per il 2009, in base a quanto disposto dall’art. 1, comma 79 della legge n. 247/2007 che ha innalzato l’aliquota di tre punti percentuali in tre anni dal 2008 al 2010.

Un ulteriore elemento di criticità consiste nel fatto che, per avere diritto all'accreditamento di tutti i dodici mesi dell'anno, sono stati previsti dei minimali contributivi. Se la lavoratrice versa meno contributi rispetto a tali minimali, i mesi di contribuzione vengono ridotti proporzionalmente alla somma versata, e ciò, evidentemente, influenzerà l’anzianità contributiva totale.

Alla luce di tutto questo, pertanto, l’elemento di criticità nell’applicazione del metodo contributivo deriva dal fatto che l’uniformità di trattamento che lo caratterizza diviene elemento di disuguaglianza nel momento in cui permette solo a determinate tipologie contrattuali di avere le caratteristiche necessarie per poter rispondere ai requisiti richiesti.

Infatti, benché il metodo contributivo non rappresenti di per sé un problema ai fini dell’adeguatezza della copertura previdenziale delle lavoratrici non-standard, lo diviene nel caso in cui alla maggiore flessibilità nel mercato del lavoro non faccia riscontro un salario che retribuisca adeguatamente, come nella maggior parte dei casi, e che sia sufficiente a compensare, dal punto di vista previdenziale, la minore tutela subita sul mercato del lavoro.

Il problema in questione è ancora più accentuato se l’occupazione intermittente è l’attività lavorativa principale della lavoratrice (ovvero esclusiva) e se vi sono continue interruzioni del rapporto di lavoro, come spesso accade nel mondo femminile (si pensi ad esempio alla maternità).

La criticità che si rinviene nel metodo contributivo, teoricamente deriva dal rapporto fra salario e contribuzione e quindi riguarda sia uomini che donne, in realtà colpisce maggiormente le donne poiché sono esse ad essere spesso impegnate in lavori discontinui e poco retribuiti.

Infatti, il dato in questione assume particolare rilevanza se si compie una valutazione di genere: il rapporto tra anni effettivamente lavorati e anni accreditabili è pari all’80-90% per gli uomini ma si riduce drasticamente per le donne arrivando al 50% circa, riduzione tanto maggiore quanto minore risulta il reddito da lavoro.

In conformità a quanto fin qui evidenziato, si delinea un quadro in cui la combinazione di basse aliquote contributive e bassi livelli reddituali fa sì che l’ammontare della pensione sia in misura uguale o addirittura inferiore all’assegno sociale, avviando così un pericoloso processo di precarizzazione e quindi un aumento di un nuovo fenomeno di povertà che coinvolge donne molto spesso laureate, e comunque ben istruite, e formate professionalmente.

A questo problema della “povertà di nuova generazione” si aggiunge un altro grave fenomeno che spesso convive con il primo, soprattutto nelle aree maggiormente depresse del Territorio: il lavoro sommerso.

Infatti, qualora le detrazioni contributive risultino essere inutilizzabili ai fini della quota pensionistica, le lavoratrici, in accordo con un datore compiacente, potrebbero essere indotte a eludere il versamento contributivo in cambio di un aumento netto del reddito mensile.

Per tutte le ragioni quì esposte è sempre più sentita l’esigenza di trovare strumenti atti a prevedere quella che ormai dalla Dottrina è definita “flessibilità previdenziale” caratterizzata da uno stretto rapporto fra caratteristiche del mercato del lavoro e strumenti di carattere previdenziale che adeguino la tutela sociale alla flessibilità lavorativa.

L’unico strumento attraverso cui la lavoratrice non-standard può aspirare a conseguire un adeguato livello pensionistico in luogo di lunghi periodi di intermittenza è l’istituto della Totalizzazione che interviene allorché vi siano posizioni contributive frazionate fra gestioni previdenziali diverse, evitando che tale situazione provochi la mancata fruizione degli apporti contributivi. Tale Istituto prevede che, al momento della maturazione del diritto, ogni gestione previdenziale presso cui è stata iscritta la lavoratrice, le eroghi pro-rata una quota di pensione relativa ai contributi versati in quella gestione.

Tuttavia, i requisiti per ottenere la Totalizzazione sono così restrittivi, se pur di recente resi maggiormente accessibili dalla Legge n. 247/2007, che raramente tale Istituto può essere adoperato. Infatti, si prevede che l’anzianità contributiva necessaria per includere una gestione nella Totalizzazione dei periodi assicurativi non può essere di durata inferiore a tre anni (in precedenza il limite era di sei anni).

Uno strumento utile potrebbe essere favorire la previdenza complementare, in quanto alla copertura minima garantita dallo Stato con la pensione pubblica a ripartizione si affiancherebbe la previdenza complementare e integrativa a capitalizzazione; tuttavia, data l’esiguità delle retribuzioni, è ragionevole ipotizzare che alla lavoratrice non convenga, dal punto di vista economico, investire parte delle proprie entrate nella previdenza (e quindi nel risparmio posticipato nel tempo) piuttosto che nel consumo immediato di beni e servizi.

Inoltre, per quanto attiene specificatamente alle lavoratrici con figli, se la flessibilità del lavoro ha permesso in alcuni casi di poter continuare a lavorare pur avendo una famiglia e dei figli è evidente che sotto il profilo della previdenza sociale i passi da fare al fine di ridurre le disuguaglianze sociali sono ancora molti.

Si potrebbe, riconoscere il lavoro di cura all’interno della storia lavorativa, prevedere una migliore copertura finanziaria del congedo genitoriale (ora solo il 30% a fronte del 67% della Germania e dell’80-90% dei paesi nordici) e un riconoscimento contributivo sostanzioso per chi ha avuto figli ovvero si è occupato intensamente di una persona non autosufficiente, da aggiungere a quelli maturati nel corso della vita lavorativa.

In sintesi, quindi, le difficoltà economiche e la mancanza di tutele finiscono per porre in essere una pericolosa disuguaglianza sociale e per questo occorre intervenire rivisitando l’attuale sistema di protezione sociale anche attraverso l’individuazione di efficaci strumenti di regolazione per la flessibilità e la sicurezza previdenziale e retributiva anche in base a quanto richiesto dalla Strategia di Lisbona che ha previsto, entro il 2010, un abbassamento del livello di povertà soprattutto fra i lavoratori più a rischio da un lato (come ad esempio le donne con figli che vivono in zone depresse del territorio), e, dall’altro, per quanto attiene esplicitamente alle donne, un miglioramento decisivo delle condizioni lavorative e una notevole riduzione del fenomeno della rinuncia al lavoro.



1] I dati presi a riferimento nel saggio si riferiscono al Terzo Rapporto per l’Osservatorio permanente sul lavoro atipico in Italia 2008; Donne e lavoro atipico: un incontro molto contraddittorio, presentato da Ires-Nidil

Valeria Filippo

Ricercatrice - Settore giuridico Associazione Nuovi Lavori




Sull' orlo di una crisi, ma non di nervi
di Maria Rita Fortunato (*)

“La crisi economica potrebbe causare un aumento del numero delle donne disoccupate di 22 milioni nel 2009''.

L'allarme è stato lanciato dall'Ufficio internazionale del lavoro (Ilo) nel Rapporto annuale sulle Tendenze mondiali dell'occupazione femminile, diffuso il 5 marzo alla vigilia della Giornata internazionale delle donne. A causa di una recessione sempre più profonda, nel corso del 2009 – secondo l'Ilo - la crisi mondiale dell'occupazione potrebbe peggiorare. La crisi, inoltre, creerà nuovi ostacoli nel cammino verso uno sviluppo sostenibile ed equo, e - avverte il Rapporto - "renderà ancora più difficile un lavoro dignitoso per le donne".

Ad Ottobre 2009 i riflessi della crisi cominciano a fornire qualche elemento in più. Infatti in un redazionale del Corriere della Sera si legge : “Per una volta “la logica di mercato” prevale su discriminazioni e pregiudizi nei confronti del lavoro femminile e non è solo una questione di salari più bassi. A che prezzo! Le donne difendono il posto di lavoro meglio degli uomini, l’occupazione femminile è calata solo dello 0,7% a fronte di un calo del 2,2% di quella maschile, ma solo perché le donne sono disposte ad una maggiore flessibilità che si traduce in lavori meno qualificati e ovviamente meno retribuiti''.

Senza poi pensare al nostro Sud dove, dai dati Istat si evince che invece le donne vengono semplicemente espulse dal mercato del lavoro e non risulta “premiante” nemmeno avere delle qualifiche più basse.

Fa riflettere uno studio della Commissione Europea ('Equality between women and men in a time of change') nel quale, anche con riferimento alla situazione italiana, si osserva che "la recessione sta colpendo più uomini che donne, segno che molti settori in cui si è sentito il peso della crisi sono a predominanza maschile".

La diversità di genere e le problematiche occupazionali ad essa connesse sembrerebbero dissolversi grazie ad un fenomeno negativo come la crisi dei mercati. La domanda sorge spontanea: e quando la crisi finirà e si invertirà la tendenza, la donna ne uscirà fortificata professionalmente o dovrà ripartire dal punto precedente prima dello tsunami?

Il mercato del lavoro oggi anche a fronte della crisi auspicabilmente in fase finale,richiede nuove regole ,maggiore flessibilità con un approccio al lavoro orientato più alla tutela dell’identità professionale che al ruolo organizzativo.

Flessibilità, identità professionale, capacità di adattamento sono gli elementi che rappresenteranno il nuovo stile di lavoro. Indubbiamente sono caratteristiche più tipicamente femminili che maschili ma a prescindere dalla diversità di genere oggi o meglio da domani sarà ciò che servirà veramente.

Non solo quindi il part time, istituto contrattuale tipicamente correlato al femminile sino ad oggi , ma tempi flessibili, banche del tempo, job-sharing tra più lavoratori, telelavoro, oltre ad una “rivoluzione culturale” per cui anche da parte dell’uomo si accettino attività flessibili, invertendo la tradizionale divisione dei ruoli.

La ricerca, condotta da McKinsey & Company per l’associazione Valore D su 900 manager - uomini e donne- delle aziende associate, inquadra il tema della flessibilità in una nuova prospettiva. Sfata innanzitutto alcuni luoghi comuni: l’interesse per i programmi di flessibilità è molto elevato tra i manager e riguarda tanto gli uomini quanto le donne; nella maggior parte dei casi l’utilizzo non è motivato dalla necessità di occuparsi della famiglia e dei figli; più flessibilità non significa necessariamente più part-time; aderire a programmi di flessibilità non è un ostacolo alla carriera.

L’esperienza delle aziende di Valore D dimostra che le soluzioni e gli strumenti disponibili sono numerosi e differenziati, con ampie possibilità di personalizzazione.

La soddisfazione e l’efficacia dei programmi, sia dal punto di vista dell’azienda sia da quello degli utilizzatori, sono elevate ma restano tuttavia ancora molti preconcetti e timori. A parte il gap culturale che l’Italia sconta rispetto ad altri paesi, occorre rimuovere all’interno delle aziende alcuni ostacoli. E’ necessario disporre di un’ampia gamma di soluzioni e personalizzarle in base al target di utilizzatori. Occorre poi divulgare questi strumenti all’interno dell’azienda e promuovere i casi di successo. E’ infine altrettanto importante stimolare una cultura aziendale del non presidio e del lavoro per obiettivi che, con il coinvolgimento dei top manager, supporti attivamente il cambiamento.

Difficilmente, tuttavia, i programmi di flessibilità potranno avere successo in azienda in assenza di una diffusione equilibrata degli stessi tra uomini e donne. Se vogliamo più donne ai vertici delle aziende – e i numeri lo dimostrano - la soluzione, in altre parole, non passa attraverso una maggiore disponibilità di tempo alle donne per gestire il doppio carico, ma attraverso una ripartizione equilibrata tra i generi di carichi e responsabilità.” (Rapporto ValoreD Novembre 09). Nei paesi europei più avanzati da questo punto di vista, il 36% dei dipendenti –uomini e donne – usufruisce di strumenti di flessibilità e la presenza di donne nei Consigli di Amministrazione è pari al 17%, tre volte superiore al dato italiano.

L’introduzione e il sostegno di una nuova cultura organizzativa e del lavoro consentirà di valorizzare il contributo del femminile abbandonando definitivamente “ghetti culturali” (uno per tutti la maternità, questo incubo visto dalla parte delle aziende,) traguardando un futuro prossimo in cui la visione di medio lungo periodo sarà premiante .

AIDP (Associazione Italiana per la Direzione del Personale) da anni,nel 2010 festeggerà il suo cinquantenario con un Congresso Nazionale a Roma in Giugno, sostiene ed analizza le tematiche di genere in ambito organizzativo fornendo il suo contributo esperienziale in numerose ricerche europee in collaborazione con le istituzioni italiane ed estere.

Molta strada ci attende sul tema; tuttavia la crisi ed il cambiamento significativo ad essa connesso, sottolineano una volta di più che “la diversità è un valore necessario per creare valore” ( Prof.S.Paneforte).

(*) L'Autrice è Vice Presidente Nazionale AIDP (Associazione Italiana per la Direzione del Personale) e dal 2004 è Presidente AIDP LAZIO.




"Benedette" differenze salariali
di Marina Capponi (*)

Le donne guadagnano sempre meno degli uomini. La ricerca parte proprio da questo dato che si manifesta in tutta la sua gravità, a livello addirittura planetario . Secondo l’Unione Europea, le donne guadagnano in media il 15% in meno degli uomini e fino al 25% in meno nel settore privato. Una donna deve lavorare fino al 22 febbraio (ossia 418 giorni di calendario) per guadagnare quanto un uomo guadagna in un anno.

Non si sottrae a questa criticità neppure la “Toscana felix”, pur in presenza di complessive performances positive sotto il profilo dell’occupazione femminile.

Che si tratti di donne manager o di impiegate, di quadri od operaie, di professioniste o imprenditrici, il risultato non cambia: le loro buste paga, emolumenti, compensi, parcelle risultano mediamente più leggeri dei loro colleghi maschi.

Nel quadro della lotta alle discriminazioni e delle politiche di genere, la parità salariale e più in generale reddituale per le donne si presenta come uno degli obiettivi più ambiziosi e più difficili da raggiungere. Nello stesso tempo, se consideriamo la percezione collettiva del fenomeno, l’evidenza numerica di tale divario di genere viene spesso accolta con sorpresa: sia dalle parti sociali, convinte che l’abolizione per legge delle differenze salariali per sesso e le politiche contrattuali egualitarie abbiano di fatto già portato le lavoratrici ad una condizione di parità; sia dalle stesse donne, in particolare dalle giovani, che non hanno ancora sperimentato sul campo la frustrazione per le differenze nei guadagni con i colleghi uomini di pari livello, che caratterizzeranno sempre la loro vita lavorativa. A fronte di ciò, appare corretto investigare, nel contesto di un territorio molto attento ai temi dell’occupazione femminile e più in generale alle tematiche egualitarie, quali siano le ragioni che producono i differenziali di genere, con un approccio multidimensionale al fenomeno, che ne affronti i diversi fattori, come la segregazione orizzontale e verticale, l’istruzione e la formazione, i sistemi di classificazione e remunerazione del lavoro.

Ma non solo: il particolare interesse che riveste la ricerca ed il suo valore innovativo consistono nell’attenzione prestata a quegli aspetti della tematica dei differenziali che la maggioranza degli studi in materia definisce come apparentemente “non spiegabili”.

Infatti nella letteratura in materia si suole più frequentemente cogliere da una parte l’aspetto della quantificazione tout court, (la “misura” della differenza, che come già detto è sempre sfavorevole alle donne sia che si tratti di lavoro autonomo o dipendente) dall’altra solo alcune delle ragioni, le più percettibili ed evidenti, quali i fenomeni segregativi, i trattamenti economici discrezionali o le vere e proprie discriminazioni.

La maggior parte degli studi si ferma però dinanzi alla “zona grigia” , ovvero alla difficoltà di spiegare il perché ci troviamo di fronte a dati salariali o comunque reddituali differenti per genere anche se riferiti a figure professionali simili.

Perché riscontriamo differenze retributive tra uomini e donne in merito a posizioni di lavoro che implicano e richiedono gli stessi skills, le stesse competenze, responsabilità gestionali, finanziarie, organizzative e di risultato?

Un dato infatti emerge incontrovertibilmente: i redditi delle donne sono sempre più bassi di quelli maschili, vuoi quando esse sono segregate nei gradi meno elevati dei livelli professionali ove il settore sia contrattualmente forte, vuoi quando la loro presenza è maggioritaria, ove il reddito dell’intero settore sia modesto.

Partendo dal dato statistico che indica il permanere di differenziali retributivi di genere anche all’interno di livelli di inquadramento contrattuale omogenei, si è tentato di verificare che la definizione formale e contrattuale del rapporto tra mansioni e livello di inquadramento non è un’operazione neutra sotto il profilo della differenza di genere.

E si è dimostrato oggettivamente che anche il modo di ordinare gerarchicamente le mansioni secondo livelli di contenuto professionale, in una realtà in cui esistono mansioni a dominanza femminile e mansioni a dominanza maschile, diventa uno dei passaggi chiave per ridiscutere le differenze di genere medesime.

Indubbiamente una parte delle differenze salariali riscontrate sono legate ad una storica dequalificazione della manodopera femminile tipica di alcuni settori.

O, ancora più a monte, discendono da ragioni esterne al mondo del lavoro, rinviando al conflitto non risolto tra tempo produttivo e tempo riproduttivo.

Basti pensare come nel nostro paese il tema della conciliazione sia ritenuto “una questione privata”, da risolvere nell’ambito della relazione lavorativa dipendente/azienda, al più implementando lo strumento consolidato dei congedi e non mediante un miglioramento del sistema dei servizi .

Con il risultato di scaricare i costi indiretti della maternità principalmente sulle lavoratrici, che scontano l’incidenza delle assenze a livello retributivo con una consistente diminuzione dei loro guadagni. Ma una significativa parte del problema è ascrivibile ad una divergente valutazione economica del lavoro e delle mansioni nella fase della contrattazione.

E’ la stessa Costituzione che impone la parità retributiva tra uomo e donna per prestazioni eguali o di pari valore. Ed è dal concetto di equal worth, del “valore equivalente” che vorremmo partire, al fine di ripensare i criteri tradizionalmente adottati per attribuire un valore monetario alle prestazioni di lavoro declinate in mansioni e qualifiche, in figure professionali, in competenze.

La quantificazione economica del lavoro umano non è pertanto un processo asettico e “neutrale”, bensì dipende da molteplici fattori: dal diverso peso che i settori del lavoro più o meno a predominanza maschile possiedono nella contrattazione, dai pregiudizi che si annidano nell'attribuzione di modesto rilievo valoriale a mansioni tradizionalmente femminili.

Sul piano delle politiche contrattuali, pertanto, sarà indispensabile, anche se il compito è tutt’altro che facile, invertire la tendenza storicamente radicata di privilegiare certi “lavori” tradizionalmente maschili sotto il profilo retributivo, attribuendo finalmente alle mansioni tipicamente svolte dalle donne il “valore” e conseguentemente il corrispettivo economico che meritano.

Un importante contributo a questo cambiamento di rotta potrebbe venire dalla riflessione in corso in Regione Toscana circa l’elaborazione di un sistema integrato di descrizione e di qualificazione delle figure professionali fondato sulle competenze. Un sistema che, nel garantire il diritto all’apprendimento per tutto l’arco della vita quale fondamento necessario per il diritto allo studio ed il diritto al lavoro, tenga ben presente l’ottica di genere secondo il principio del mainstreaming quale approccio metodologico nel processo di individuazione delle figure professionali.

Un sistema che superi un approccio di genere stereotipato delle professionalità nella fase di certificazione delle competenze e che valorizzi, accanto ai contenuti tradizionalmente tecnici, anche le competenze cd. trasversali, le capacità di essere flessibili e cooperativi, di lavorare su più livelli, di coordinare ed armonizzare più voci. Quelle competenze, in sintesi, che la sociologia del lavoro ritiene siano attribuibili in maggior misura alle donne, da sempre abituate a destreggiarsi tra impegni familiari e lavoro, ad ottimizzare il tempo, ad ascoltare ed accontentare necessità ed esigenze plurali, a risolvere problemi concreti fino a farne un’attitudine professionale. Competenze che peraltro le organizzazioni cercano in misura crescente e faticano a trovare, in quanto l’offerta lavoro tradizionale appare addestrata da sempre alle virtù opposte: individualismo, competizione, rigida e routinaria gestione di tempi, perseguimento del prestigio personale a discapito del risultato collettivo .La ricerca pertanto vuole provare ad offrire qualche indicazione utile per affrontare il problema dei differenziali retributivi in maniera articolata, che accanto ai consolidati interventi volti a desegregare il lavoro femminile ed alle politiche di conciliazione dei tempi, presti maggiore attenzione ai meccanismi della contrattazione, con accresciuta consapevolezza delle differenze di genere nella declinazione delle competenze e nella elaborazione pattizia, ed avanzi suggerimenti per la valutazione economica delle professionalità che si avvalga di criteri alternativi nel rispetto, in un’ottica di genere, dell’eguale valore anche monetario delle competenze.

E l’Unione Europea non si limita a denunziare il deprecabile fenomeno delle discriminazioni retributive dirette e indirette tra donne ed uomini, ma ci fornisce nello stesso tempo importanti indicazioni di percorso per superarle: la Risoluzione del Parlamento Europeo approvata il 18 novembre 2008 a grande maggioranza, reca una raccomandazione alla Commissione sull’applicazione del principio della parità retributiva fra i sessi, segnalando la necessità che la Direttiva 2006/54/CE di rifusione sia pienamente applicata, anzi venga affiancata da un apposito, specifico provvedimento contro il divario retributivo. E le raccomandazioni particolareggiate che accompagnano la proposta implicano un impegno a migliorare la definizione dei concetti anche giuridici di differenziale e di discriminazione salariale, l’adozione di dati statistici precisi e trasparenti, una più corretta e non stereotipata valutazione del lavoro e classificazione delle professioni che valorizzi la qualità, la competenza e la responsabilità, un’implementazione del dialogo sociale che contrasti nella contrattazione collettiva l’adozione di classificazioni professionali discriminatorie e superi una definizione distorta dei livelli retributivi. Si punta altresì all’introduzione di specifiche sanzioni, dal momento che disposizioni che ne sono prive rischiano di rimanere inefficaci, accanto a misure di prevenzione delle discriminazioni sia nella sensibilizzazione che nella formazione.

In questo complesso scenario assumono grande importanza gli organismi di parità, quali le Consigliere di Parità, nella loro attività promozionale e di controllo, esercitata attraverso l’elaborazione di studi indipendenti, l’assistenza legale alle vittime di discriminazioni retributive, la promozione di azioni positive anche a contenuto formativo rivolte sia agli attori giudiziari che alle parti sociali. Anche lo studio promosso dalla Consigliera di Parità della Regione Toscana grazie alle risorse del Fondo previsto dall’art. 9 del decreto Legislativo n. 198/06 (Codice delle Pari Opportunità) vuole essere un primo contributo in questo difficile ma necessario percorso e per la sua natura multifocale intende rivolgersi a tutti gli attori che giocano una parte significativa nella costruzione di strategie sociali, formative ed occupazionali rispettose dei diritti delle donne e del principio d’eguaglianza di genere.


(*) Marina Capponi Consigliera Regionale di Parità della Toscana



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