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IL 26° RAPPORTO ITALIA DELL’EURISPES
di Pietro Merli BRANDINI

Nelle sue considerazioni Gian Maria Fara sceglie, come sempre ha fatto, la verità nelle situazioni.

Si è fatta largo, ben oltre il ventennio lasciato alle spalle, una tendenza che sommando gli errori politici con l’appiattimento culturale preparava al declino attuale. Da società “affluente” siamo diventati una società “defluente” che rischia il declino verso la povertà, dopo aver quasi distrutto la classe media.

Il presidente dell’Eurispes illustra le fasi della decadenza per rispettare la verità, anzitutto.

Ma non si rassegna al declino, invita gli italiani che non credono in sé stessi, a reagire malgrado la gravità della situazione.

E’ motivo di conforto constatare le cose positive che stanno riemergendo nell’economia.

L’industria manifatturiera, sia pure senza continuità e al costo di una forte disoccupazione, sopravvive sui mercati europei ed oltre, anche se esistono le ristrutturazioni senza successo, specie nelle produzioni standardizzate (elettrodomestici) e in quelle energivore.

Anche l’agricoltura scopre la qualità. Il comparto agro-alimentare sta a dimostrarlo.

Un progresso indiscutibile è stato conseguito dalle Forze Armate, dalle forze di polizia e della sicurezza interna perchè fortemente integrate negli standards internazionali, grazie alle nostre alleanze in Europa e nell’area Nord-Atlantica. Burocrazia e fisco, entrambi intollerabili, restano isolati nelle proprie concezioni domestiche statiche e conservatrici.

Nelle alte sfere della politica è forte l’impatto delle opposizioni conservatrici. Molte forze si battono per il disimpegno delle missioni estere, proprio quelle da cui deriva quel tanto di prestigio di cui gode il Paese.

Nazionalismo e discesa in campo dei comici cercano di realizzare una comica della politica.

Grazie ad una parte dei media l’esercizio è in corso. Ci sono venature giacobine, campagne mirate anche contro ciò che emerge senza colpe. Sicchè lo spettacolo serale è quello di riproporre le versioni forcaiole dei processi. Sembra, con viva partecipazione di quel tanto di pubblico che lo gradisce.

Fara ci invita a pensare in positivo per estenderlo e risorgere: “Cosa possibile se lo vogliamo”.

In sintesi non si è nella verità se si prescinde dai valori e dalle virtù.

Ne fummo capaci. Era il periodo 1947-1970.

Poi, la scelta della giurisdizione pubblica sulle decisioni e cioè il ruolo determinante dello Stato ha travolto le virtù, e siamo alla malasorte non solo dei partiti ma anche dalle istituzioni.

Fara non fa sconti. Denuncia ciò che accade nelle esperienze regionali e locali, ove si sono improvvisati imprenditori pubblici senza successo. Anzi con perdite in risorse pubbliche e prestigio. Senza virtù non c’è progresso.

Questo vale anche per le critiche rivolte all’Europa che fa finta di credere che il rigore crea sviluppo e crescita.

Ma l’Europa sbaglia e continua a sbagliare. Quanto all’Euro è giusto ricordare che una moneta non può sopravvivere senza uno stato federale.

Abbiamo perso la capacità creativa di un tempo. Come Paese reale, sia pure con contraddizioni, seguitiamo a sperare nell’Europa. Resta il problema: cosa dobbiamo chiedere all’Europa?

Ma è anche giusto chiederci cosa abbiamo fatto per accrescere produttività e competitività. Invece abbiamo perso dai 6 agli 8 punti in competitività, nell’ultimo decennio, rispetto ai nostri maggiori concorrenti europei. Poi ci lamentiamo della caduta del PIL.

Fino agli anni ’70, ci concentrammo intorno ai problemi della organizzazione delle imprese e del lavoro. La produttività era una nota dominante. Poi è nata l’era dei diritti universali che dovevano essere assicurati meccanicamente dallo Stato. Il fatto che diventassero inesigibili, non ci indusse neppure a riflessioni. Ci rifugiamo nella retorica della “costituzionalizzazione” dei diritti. Questa era e rimane la posizione dominante in alcune decisive forze politiche e sociali di destra e di sinistra.

Perché abbiamo perduto la virtù di credere ad una cultura delle organizzazioni di imprese e del lavoro?

Perché non osiamo neppure parlarne?

C’è eguale pavidità nella ossificazione del mercato del lavoro. C’è una domanda pendente, formulata da Trichet e Draghi, in materia di mobilità assistita del lavoro che attende invano una risposta. Il Paese, la politica e le organizzazioni politiche e sociali tacciono e aggravano i problemi.

C’è poi la retorica sulla sovranità.

E’ vero, ma ignoriamo come e perché non solo l’Italia ma l’intero pianeta degli Stati sovrani ha, più o meno consapevolmente (nelle varie forme di consultazione, cooperazione o negoziazione internazionale), ceduto sovranità in materia di “Governance”. In una pura e semplice rassegna dei fatti, Sabino Cassese ci informa che (a partire dal dopoguerra) siamo nella fase della “Governance without Government”. Le leggi nazionali sono, per lo più l’applicazione della “Governance”, generata non solo dall’Europa, ma da spazi, politici ed economici, che coinvolgono l’intero pianeta.

Conclusione, la sovranità degli Stati non c’è più. Meglio saperlo, per trovare rimedi piuttosto che lamentarci.

Grazie a Fara per aver aperto la strada a qualche considerazione, sia pure azzardata come la presente.

 
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